Volontà e Rappresentazione

Il Mondo di Schopenhauer

Thomas Masini
Filosofia

La natura stessa della volontà è il volere, il desiderare inesauribile ed inesausto: la volontà vuole, vuole ogni cosa e vuole se stessa, e nulla di ciò che esiste vale a placare questo indomabile desiderio.

     L’orizzonte della storia della filosofia che ora si staglia di fronte ai nostri occhi è molto irregolare e costellato di cime da superare. Con questo intendo dire che, dopo aver scalato nel precedente articolo [1] il grandioso sistema hegeliano, di fronte a noi sulla linea cronologica si presentano in breve spazio molti autori non solo importanti in sé, ma fondamentali per comprendere gli esiti odierni della filosofia ed il nostro stesso approccio alla realtà – che al loro pensiero è debitore. Il filosofo di cui trattano le seguenti pagine è Arthur Schopenhauer, noto anche per esser stato la nemesi coeva di Hegel. Famosa è la loro reciproca antipatia, al punto che si racconta come Schopenhauer – che nel 1820 divenne titolare di una cattedra all’università di Berlino – avesse chiesto ed ottenuto che le sue lezioni fossero sempre negli stessi giorni ed orari di quelle di Hegel, con il risultato che mentre quest’ultimo aveva un pubblico di circa quattrocento uditori, alle lezioni di Schopenhauer se ne presentarono non più di cinque, tanto che dal secondo semestre le lezioni furono sospese per assenza di pubblico. Una profonda ferita esistenziale per il filosofo che descriveva il suo nemico come «il goffo e disgustoso ciarlatano Hegel, quest’uomo pernicioso, che ha disorganizzato completamente e rovinato i cervelli di tutta una generazione».[2]

     Ma lasciamo perdere i pettegolezzi, benché su Schopenhauer più che su qualunque altro filosofo siano non solo numerosi ma spesso assurdi e divertenti, ed occupiamoci della sua filosofia. La sua opera principale e fondamentale è, naturalmente, Il Mondo come Volontà e Rappresentazione, (pubblicato nel 1818, con scarsissime recensioni e per lo più negative,  invenduto al punto che l’editore ne mandò al macero la maggior parte delle copie). Si legga quali fossero le intenzioni dell’autore per questo suo volume:

     Mi propongo di indicare, in queste pagine, come questo libro vada letto e come si può forse riuscire  a comprenderlo. Quello che, per suo tramite, deve essere comunicato è un unico pensiero, E tuttavia, nonostante i miei sforzi, non sono stato capace di trovare, per esporlo, una via più breve di quella di questo libro nella sua interezza. Ritengo che tale pensiero sia quello stesso che, sotto il nome di filosofia, è stato cercato così a lungo che la sua scoperta sembra agli esperti di storia impossibile quanto quella della pietra filosofale, anche se già Plinio ebbe a dire: «Quam multa fieri non posse, priusquam sint facta, judicantur?» (Hist. Nat., 7, I). [3]

     Il progetto è ambizioso e sostento dalla convinzione di aver finalmente trovato la risposta vera alle domande millenarie della filosofia. Ma qual è quest’unico pensiero che dev’essere comunicato? Il lettore perdonerà se verrà qui posta una seconda citazione:

[…] come il mondo da un lato è in tutto e per tutto rappresentazione, così dall’altro esso è in tutto e per tutto volontà. Una realtà che non sia né l’una né l’altra e che sia invece un oggetto in sé (a una realtà di questo tipo si è ridotta purtroppo anche la cosa in sé di Kant, la quale è degenerata nelle sue stesse mani) è il sogno di una non-cosa, e la sua ammissione nella filosofia è un fuoco fatuo. [4]

     Il ‘mondo’ – che per ora assumiamo come sinonimo di ‘totalità’ – è allo stesso tempo totalmente volontà e totalmente rappresentazione, seppure secondo differenti rispetti. A questo punto, però, è necessario capire cosa si intenda con questi due termini.

     Il mondo come Rappresentazione.

     Nel primo paragrafo del primo libro del Mondo, Schopenhauer scrive: «Nessuna verità è dunque più certa, più indipendente da tutte le altre e meno bisognosa di una prova di questa, che tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, | altro non è che l’oggetto in relazione con il soggetto, l’intuizione di chi intuisce: in una parola: rappresentazione».[5] La rappresentazione, quindi, è il fondamento della conoscenza, dell’intuizione e della percezione, ossia la condizione sine qua non si può dare l’esistenza dell’oggetto – come ciò che viene conosciuto – e del soggetto – come ciò che conosce. Pertanto il mondo come soggetto conoscente ed oggetto conosciuto (ed insieme queste due categorie saturano l’esperibile) è rappresentazione – naturalmente il soggetto conoscente è l’umano. Ma quali norme segue la rappresentazione, ossia quali sono le leggi che costituiscono il mondo della rappresentazione così come esso è? Fondamentalmente si tratta di un principio unico, benché diviso in quattro parti, che Schopenhauer riprende da Leibniz e rielabora compiutamente: il principio di ragion sufficiente. Non a caso la sua tesi di dottorato (1813) porta il titolo: Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente. [6] Questo principio attesta sostanzialmente che nulla può essere così com’è, può esistere, od essere vero senza che vi sia almeno una ragione sufficiente per la quale sia così e non in un altro modo; o, in altre parole, tutto ciò che esiste, ed è vero, è così perché esiste una ragione o motivazione sufficiente a renderlo tale. Schopenhauer distingue quattro radici del principio: la legge di causalità, il principio (deduttivo) del conoscere, il principio dell’essere e la legge della motivazione. Senza addentrarci troppo nello specifico basti notare come queste quattro radici siano in grado di dar ragione di ogni aspetto del mondo della rappresentazione, ossia di dare sempre una risposta alla domanda “perché?”.

     Si è già detto che il soggetto e l’oggetto fanno entrambi parte della rappresentazione (o meglio, per Schopenhauer non solo non esiste una preminenza dell’uno sull’altro – come sostengono il materialismo e l’idealismo – ma si tratta di un’unità inscindibile), ma chiaramente è il soggetto che porta in sé il compito della percezione, o dell’intuizione. Questa peculiarità fa sì che il soggetto possa anche conoscere se stesso come oggetto, ossia possa fare della propria corporeità l’oggetto della propria conoscenza. Tuttavia nel fare questo il soggetto scopre in sé qualcosa che non soggiace al principio di ragion sufficiente, qualcosa che sfugge alle leggi che regolano il mondo come rappresentazione. Questo ‘qualcosa’ è ciò che Schopenhauer definisce voluntas (volontà).

     Il mondo come Volontà.

     Scrive Schopenhauer:

Fenomeno significa rappresentazione, nient’altro: ogni rappresentazione, di qualsiasi tipo essa sia, ogni oggetto, è fenomeno. Cosa in sé, invece, è solo la volontà; come tale essa non è affatto rappresentazione ma è toto genere diversa da essa: è ciò di cui ogni rappresentazione, ogni oggetto è il fenomeno, l’apparenza visibile, l’oggettità. È ciò che vi è di più intimo, il nocciolo tanto di ciascun singolo quanto del tutto: si manifesta nell’azione cieca di ogni forza della natura, ma si manifesta anche nella condotta ragionata dell’uomo; la grande differenza che c’è tra questi due casi concerne solo l’intensità della manifestazione, non l’essenza di ciò che in essa si manifesta. [7]

     La volontà è la cosa in sé, ossia il nocciolo intimo e profondo del mondo, la sua natura più intrinseca e nascosta. Infatti poiché essa non è soggetta al principio di ragion sufficiente, allo stesso modo è inconoscibile in sé. Di essa si possono cogliere solo quelle manifestazioni che appaiono in forma di rappresentazioni, ossia si manifesta come quella forza che fa sì che determinate rappresentazioni si costituiscano in un determinato modo. La natura stessa della volontà è il volere, il desiderare inesauribile ed inesausto: la volontà vuole, vuole ogni cosa e vuole se stessa, e nulla di ciò che esiste – né una qualsiasi rappresentazione, né la volontà stessa – vale a placare questo indomabile desiderio. Questa è la ragione del continuo, travagliato e sofferente divenire della natura, ed è altresì il motivo dell’inquietudine e dell’insoddisfazione che costituisce l’esperienza umana nel mondo. Poiché la volontà vuole e nulla vale a placare il suo desiderio, essa genera dolore; poiché la volontà vuole, se anche essa venisse esaudita e cessasse il suo desiderare, essa genererebbe la noia: «La sua vita oscilla così come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che in effetti sono, l’una e l’altra, le sue due componenti fondamentali». [8] L’essere umano in particolare, nella sua prerogativa di soggetto/oggetto, è più di ogni altra cosa soggetto alla morsa della volontà, che in lui si manifesta in massimo modo: il suo inestinguibile desiderio e la sua inderogabile volontà di vivere lo trascinano senza via di scampo nel vortice del dolore infinito e senza scopo.

     Al di là del ‘Mondo’.

     Vi è, tuttavia, la possibilità – seppure quasi inesistente e per certi versi folle – di tentare di sottrarsi a questo giogo della volontà. Se la volontà è l’essenza dell’essere umano come cosa in sé, e difatti si manifesta in lui principalmente come volontà di vivere, l’unico modo per sottrarsi alla sua morsa è appunto abbandonare la stessa volontà di vivere.  In questo senso, il distacco dalla volontà, per giungere a quella che Schopenhauer definisce noluntas, equivale al distacco dalla vita stessa: una sorta di cammino ascetico fatto di privazione e contemplazione, di lontananza e atarassia. È la via che intraprende il saggio orientale nel suo allontanamento dal mondo verso l’illuminazione. Rimane però il grande problema che intraprendere questo cammino presuppone un atto di volontà, ossia: la volontà di abbandonare la volontà è anch’essa volontà. E come ci si può allontanare dalla propria essenza più intima, dal proprio desiderio stesso di vivere, di esistere? Impostare il problema in questo modo lascia ben poche speranze di successo. Eppure, solo rinunciando alla volontà:

[…] vedremo la pace più preziosa di tutti i tesori della ragione, l’oceano di quiete, la profonda calma dell’animo, l’imperturbabile sicurezza e serenità, il cui semplice riflesso sul volto, quale l’hanno dipinto Raffaello e Correggio, è per noi la più completa e la più veridica rivelazione della buona novella: non resta più che la conoscenza; la volontà è scomparsa.

[…]

Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero e assoluto nulla. Ma, viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, è proprio questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, ad essere nulla. [9]

     Voglio ricordare e ringraziare qui, ancora una volta, Giorgio Brianese, professore e maestro al quale devo tra l’altro ciò che conosco di Schopenhauer, e il cui ricordo è sempre presente.

[2] A. Schopenhauer, Sulla filosofia delle università, in Parerga e paralipomena, Giorgio Colli (a cura di) 2 voll., Adelphi, Milano 2012, vol. I, pp. 197-276, p. 237.

[3] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione. In appendice: Critica della filosofia kantiana, Traduzione e curatela di G. Brianese, Einaudi, Torino 2013, Prefazione alla prima edizione, p. 5.

[4] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione. op. cit., p. 31.

[5] Ivi, p. 29.

[6] A. Schopenhauer, Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, S. Giametta (a cura di), Rizzoli, Milano 1995. 

[7] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit, p. 159. 

[8] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, op. cit, p. 401.

[9] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione. Antologia sistematica a cura di G. Brianese, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 225. 

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