Une fleur
du mal

L’oblio della bellezza

Luca Vidotto
Letteratura

Tra i fari che illuminano la via a Baudelaire, offrendo requie al suo continuo naufragare, puntellando di lucentezza le sue oscurità, c’è la pittura. Quella di Rubens, dove la vita, anche se immersa nel lago nero dell’oblio, fluisce e si agita senza tregua [1]. Quella di Leonardo, che nel suo mirabile occhio riuscì a intrappolare la vera apparenza dell’uomo, misurandolo fin nelle sue passioni più ardenti, facendolo sprofondare dentro a uno specchio profondo e cupo. Fari sono i tristi chiaroscuri di Rembrandt, dove la preghiera, in lacrime, esala dalle lordure, e l’ossessione per i corpi, materia dannata per l’eternità, che in Michelangelo vede Ercoli mescolarsi a Cristi, lacerati, al crepuscolo.

Che tu sia lodato, o tu che sapesti raccattare la bellezza di quanto imputridisce, ed è perciò più pieno di vita, più eccitato, nelle carni ormai esangui che divorano il corpo! – Così sembra sentir cantare Baudelaire, riverso col cuore a quegli animi che seppero lasciare una bava di luce, dell’eterno una traccia sommersa, in questa storia straniante degli uomini. Un malinconico imperatore degli ergastolani, un ragazzo di vita, di vita violenta, può ergersi a faro – come fu per Goya – anche solo per averci mostrato un incubo colmo di cose sconosciute, di cose che sempre abbiamo sotto agli occhi e che proprio per questo non vediamo, e non sentiamo.

Un fiore baudelairiano sbocciato nella palude del male – ma dimenticato, abbandonato ai propri bui e ai chiaroscuri dell’invidia e dell’ipocrisia – fu Caravaggio.

Sollevato il velo della realtà, delle nostre idee, scorgiamo, lì dietro, uno sguardo ambiguo, un urlo strozzato, un sorriso gravido di mistero – che ci rende ebbri, e che ci dà angoscia. I fari ci illuminano. Ma dove la luce? Chi la luce?

Maestro della luce, e delle ombre, uno più degli altri condivideva con Baudelaire lo stesso ideale, in frantumi, di bellezza; uno soltanto disprezzò davvero la bellezza da vignette coi suoi prodotti avariati, nati da un secolo gaglioffo [2], o lo stormo cinguettante di bellezze da ospedale, niente più che innocue e fredde pallide rose. Il poeta e il pittore sentivano di desiderare, dal profondo delle proprie viscere, una bellezza capace di lacerare lo stomaco, di renderli ebbri fino a svenire, fino a morire. Estasi e strazio è la bellezza, così capace di spingersi fin nel buio più nero del loro cuore profondo come un abisso, per lì sbocciare in un fiore di fuoco. Ché solo dall’abisso l’altezza delle vette ci appare vertiginosa!

Un bellissimo fiore, sbocciato nella palude del male, nel magma del suo cuore di tenebra – ma per centinaia d’anni dimenticato, divorato dall’ampollosa lucentezza del Barocco, abbandonato ai propri bui e ai chiaroscuri dell’invidia e dell’ipocrisia – fu Caravaggio. Guardate i suoi quadri. Fermatevi davanti a Morte della Vergine. Assaporate, ora, queste strane parole:

Rammenta la cosa che vedemmo, anima mia, in quel mattino d’estate così dolce: alla svolta d’un sentiero, una carogna infame, su un letto sparso di ciottoli,

a gambe all’aria, come una femmina lubrica, in foia e trasudante veleni, apriva non curante e cinica il ventre colmo d’esalazioni.

Il sole splendeva su quel marciume, come per cuocerlo a puntino, e per restituire centuplicato, alla grande Natura, tutto ciò che essa aveva legato insieme;

e il cielo guardava la carcassa superba sbocciar come un fiore… [3]

Non si possono cucire addosso a quest’immagine tremenda? Non s’incontrano in quest’intonazione la poesia e la pittura, la musa ulcerosa e il Bacco malato? Non sembrano pensati per lui, e lui soltanto, per i suoi corpi, in cui risuonano i canti di dolore della carne, e per le sue nature morte, marcescenti, di cui quasi possiamo sentire il puzzo? Non è forse une charogne il cadavere di Maria – così come lo può essere il corpo di una prostituta annegata nel Tevere – che presto verrà abbandonata ai vermi?

Ma allora, perché Baudelaire non accennò nemmeno a Caravaggio, nella lista dei suoi fari? Com’è possibile? Sembra che tutti questi suoi fari a lui indichino: Rubens scese da Anversa fino a Roma per poterlo ammirare, e lì acquistò lo scandaloso e rifiutato Morte della Vergine; Leonardo, negli anni in cui il maestro del giovane pittore si formava in Lombardia, era il paradigma di tutta la pittura contemporanea, con le sue messe a fuoco e le sue sfumature; Rembrandt mai avrebbe esercitato una tale arte e maestria nell’uso della luce, se non fosse esistito; Michelangelo gli insegnò la maestà del corpo umano, la sua grandezza e bellezza – ma sembra che Baudelaire si sia sempre e solo fermato al dito, e mai alla persona indicata. è mai possibile?

Come un papavero, Caravaggio venne strappato via dal vento dell’oblio, lasciando la stanza della memoria dei secoli che seguirono la sua vita – la vita dell’egregius in Urbe pictor – una misera stanza vuota: dove le sue opere erano esposte e ammirate dagli spiriti più eccelsi del mondo, rimase il bianco del muro, spoglio. Venne dimenticato, cancellato dai ricordi, conosciuto ormai soltanto dall’Artista, che un giorno inviò in terra il suo figlio più bello, mostrando agli uomini la stupidità delle loro forme e delle loro idee – figlio che, come il primo, non fu compreso. Caravaggio, pittore di talento, ma distruttore dell’arte, dissero i suoi censori. Troppo antisociale, andava espulso dal palazzo dorato della società: perché portare avanti questo fardello, questo immorale essere, questa vergogna del sublime? Soltanto il Novecento poteva riscoprirlo. Soltanto il Novecento, sotto la luce di Baudelaire, suo fratello di sangue, poteva capirlo davvero: 

Queste maledizioni, queste bestemmie, questi lamenti, queste estasi, questi urli, questi pianti, questi Te Deum, sono un’eco ripetuta da mille labirinti; sono pei cuori mortali, un oppio divino! 

Sono un grido replicato da mille sentinelle, un ordine rimandato da mille portavoci, un faro acceso su mille cittadelle, un richiamo di cacciatori sperduti nelle grandi boscaglie!

Ché davvero, o Signore, la miglior prova di dignità a noi concessa è proprio tale singhiozzo che, rotolando d’era in era, viene a morir sulle rive della tua eternità. [4] 

Chi meglio di Caravaggio viene illuminato tanto bene da questa lode di Baudelaire, chi meglio di lui scuote i cenci davanti ai nostri occhi e ci racconta la sofferenza umana [5], perciò ci rivela l’uomo nella sua grandezza e nella sua dignità? 

Ma il poeta doveva rimanere all’oscuro di tutto – questa la portata della dimenticanza a cui ogni essere vivente, nella sua epoca, è destinato. Si sarebbero amati, così simili, e invece Baudelaire non poté conoscerlo, così come non poté Caravaggio. 

Ecco l’atrocità del tempo, che distrugge i corpi e le menti, e che arriva a divorare anche se stesso – chissà, forse per noia – abbandonandosi alla dimenticanza.

Ecco il miracolo dell’amore, che quei corpi e quelle menti, lacerati, li può legare a sé, intrecciando papavero e memoria, in una corona che brilla ben al di sopra delle spine.

[1] Da qui, fino alla prossima indicazione, in corsivo cit. da I fari in C. Baudelaire, I fiori del male, trad. it. di G. Caproni, Venezia, Marsilio, 2018, pp. 83-84.

[2] Da qui, fino alla prossima indicazione, in corsivo cit. da L’ideale in C. Baudelaire, I fiori del male, cit., pp. 101-102.

[3] Una carogna in C. Baudelaire, I fiori del male, cit., p. 121.

[4]  I fari in C. Baudelaire, I fiori del male, cit., p. 85.

[5] Commento su Rembrandt di Baudelaire nel Salon del 1845.