‘Potere’
non significa
‘violenza’

LPNW
Filosofia

La garanzia della nostra pace oggi non è la deterrenza, ma è la capacità delle persone di agire insieme.

 

«L’«apocalittica» partita a scacchi fra le superpotenze, cioè fra coloro che si muovono sul piano più elevato della nostra civiltà, si gioca secondo la regola per cui «se uno dei due ‘vince’ è la fine per entrambi»; è un gioco che non somiglia a nessuno dei giochi di guerra che lo hanno preceduto. Il suo scopo «razionale» è la deterrenza, non la vittoria, e la corsa agli armamenti, che non è più una preparazione alla guerra, può essere giustificata soltanto in base alla tesi che un potenziale di deterrente sempre maggiore è la migliore garanzia di pace». [1] Questa citazione appartiene ad Hannah Arendt ‒ teorica della politica tedesco-americana e sopravvissuta alla Shoah ‒ e si trova nella prima pagina del suo saggio Sulla violenza, pubblicato nel 1970. La partita a scacchi di cui lei parla continua ancora oggi e sta accrescendo la sua brutalità.

Una guerra assordante è giunta nelle case ucraine. Questa guerra ha occupato non solo il territorio dell’Ucraina ma le menti degli individui in tutto il mondo. Come sappiamo, ogni guerra semina divisione. Questa divisione ha già iniziato ad insinuarsi nelle nostre teste, dove la propaganda lavora ventiquattro ore su ventiquattro come un tarlo diabolico. La violenza e l’aggressione, come dimostrano l’eredità storica e letteraria del mondo, sono sempre dirette verso i più deboli, e il loro primo effetto è un deterioramento psico-fisico degli individui che le subiscono. Il meglio che noi, come esseri umani liberi e generosi, possiamo fare è insistere nello schierarci con i governi pacifisti e passare dalla parte dell’unità, e non della divisione. Perché il vero potere è nell’essere uniti e non divisi, e, tra l’altro, questo potere è ora nelle nostre mani, anche se ad uno sguardo superficiale può sembrare ridicolo pensarlo. La garanzia della nostra pace oggi non è la deterrenza, ma è la capacità delle persone di agire insieme.

La Arendt, nella sua opera Sulla violenza, sostiene la disuguaglianza tra ‘potere’ e ‘violenza’, ed aggiunge che il «“Potere” corrisponde alla capacità umana non solo di agire ma di agire di concerto (ted. zusammen). Il potere non è mai proprietà di un individuo; appartiene a un gruppo e continua a esistere soltanto finché il gruppo rimane unito». [2] La differenza principale che consente di distinguere la violenza da questa fallace identificazione è da ricercare nel «suo carattere strumentale. Fenomenologicamente, è vicina alla forza individuale, dato che gli strumenti di violenza, come tutti gli altri strumenti, sono creati e usati allo scopo di moltiplicare la forza naturale». [3] La radice di questo malinteso, ritiene Hannah Arendt, si trova nell’incapacità di distinguere nozioni chiave per la scienza politica come ‘potere’, ‘forza’, ‘potenza’, ‘autorità’ e ‘violenza’. La potenza designa qualcosa che è connaturato solo all’individuo, e potrebbe aver bisogno dell’aiuto del gruppo per sviluppare la sua estensione e crescere. Il termine ‘forza’ dovrebbe essere riservato alle espressioni come “forza della natura” o “forza delle circostanze”. L’ultima è l’autorità, che può essere assunta da un individuo, non è basata sulla violenza, ma può essere rapidamente persa una volta che il leader perde il riconoscimento del gruppo.

Uno dei miei professori di lingua Inglese all’università ci invitava costantemente a “sviluppare, per ogni questione, la capacità di elevarsi al di sopra di essa e di osservarla da lassù”; una bella perifrasi per indicare il ‘pensiero critico’. Tuttavia, in questa battaglia per la pace, il solo pensiero critico sembra non essere sufficiente. L’avvicinarsi inesorabile delle conseguenze irreversibili non avrà né pietà né solidarietà, ma invece dividerà famiglie e amici. Attuare il sostegno reciproco tra i civili è l’agire necessario in tempi così drastici. Oggi, come mai prima d’ora, il potere libero dalla violenza, quello che esiste finché l’unione di individui solidali e pronti ad agire non viene meno, è nelle loro mani. La tecnologia oggi lavora anche per questo, rendendo possibile la diffusione della parola, quella stessa parola che deve fermare questa follia.

Conquistare la vittoria attraverso la violenza è possibile, ma si tratta di una scommessa ad alto rischio, perché agendo in questo modo il vincitore è destinato a perdere il suo potere. È il destino di un essere umano che, avendo ereditato l’orgoglio e l’ambizione, invece di impedire che esse lo trasformino in un mostro, si inebria della sua testardaggine e del suo egocentrismo; costui è, prima o poi, destinato a perire. La storia è stata testimone di molti tentativi presuntuosi di instaurare un sistema di potere sulla base di un comportamento coercitivo, e vale la pena di chiedersi quante volte qualcosa di genuinamente buono, di utile per il benessere del popolo, è emerso da una condizione simile. Invece, i movimenti contro la guerra ‒ per esempio il movimento contro il Vietnam in America nel 1969 che era sostenuto da persone di diversi gruppi sociali, tra cui studenti, musicisti, attori, clero, ambientalisti ecc. ‒ hanno spesso portato a conseguenze benefiche con una grande capacità di permanenza e resilienza. Nel caso della guerra in Vietnam, centinaia di migliaia di persone in tutti gli Stati Uniti scioperarono per protestare contro l’escalation di Nixon nella guerra in Cambogia. Il risultato fu che i soldati rifiutarono gli ordini e così facendo paralizzarono la capacità dell’esercito di essere efficiente sul campo, [4] e come conseguenza ultima il ritiro delle truppe e la pace che così tanti avevano invocato. La verità era con loro. E speriamo che ora sia di nuovo con noi.

Amore, pace, niente guerra!

[1] Hannah Arendt, Sulla violenza, trad. italiana di Savino D’Amico, Ugo Guanda Editore, Parma 1996.

[2] Ivi, pp. 32-33.

[3] Ivi, p. 34

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