L’Onu: un colosso
ibernato

Marta Bernardi
Attualità

Pertanto, parrebbe che le Nazioni Unite si trovino ad un bivio: riformarsi e riprendere fermamente il proprio ruolo o rassegnarsi a vedere la propria autorità scavalcata più e più volte, aggravando sempre di più la percezione della sua immobilità nei confronti delle crisi.

Nell’ultima settimana le reazioni nei confronti degli accadimenti ad est sono andate dall’aperta incredulità, al timore, alla frustrazione, alla rabbia. Incredulità, di fronte ad una situazione che ci rimanda al passato. Timore, nei confronti di un’ulteriore escalation delle violenze. Frustrazione, perché ancora una volta non siamo riusciti ad impedire un conflitto. Ed infine rabbia perché, come sempre, sarà la gente comune a pagare le conseguenze di questo conflitto. È per questo motivo che le numerose manifestazioni di solidarietà nei confronti della popolazione ucraina, provenienti da tutto il mondo, contribuiscono a scaldare almeno un poco i cuori di tutti, gelati dallo shock. 

Tanti i cartelli esposti nelle manifestazioni, i più ricorrenti portano scritto ‘STOP WAR’ o il suo equivalente ucraino ‘НЕТ ВОЙНЕ’. Tuttavia, un altro cartello che ha campeggiato in più piazze recava un altro tipo di messaggio. Più precisamente supplicava un intervento Nato all’interno del conflitto. Viene dunque da chiedersi perché chiedere aiuto proprio alla Nato e non alle Nazioni Unite? Certo, la Nato è un’alleanza militare, dunque meglio attrezzata per gestire – militarmente – una crisi quale quella attuale. Ed è verso la Nato che l’Ucraina sta cercando di indirizzarsi, allontanandosi sempre di più dalla sfera d’influenza russa, uno dei tanti motivi alle spalle dell’invasione di Putin. Tuttavia, l’Ucraina non ne fa ancora parte e dunque non può appellarsi al famoso articolo 5 del trattato di fondazione del Patto Atlantico, il quale prevede che in caso di attacco ad uno degli Stati Membri gli altri siano tenuti ad intervenire in sua difesa. In tal caso, dunque, non sarebbe più appropriato rivolgersi alle Nazioni Unite, in quanto organizzazione nata proprio per gestire le minacce alla pace e alla sicurezza globale?

Sembrerebbe di no, e per più di una ragione. In primis, il fattore più ovvio che spingerebbe i popoli in piazza a non rivolgere i loro disperati appelli all’Onu, sarebbe proprio la sua struttura decisionale. Infatti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’organo più importante e centrale dell’organizzazione, da cui dipende un qualsiasi intervento all’interno di un conflitto, soffre di un importante deficit. Ci si riferisce al diritto dei soli membri permanenti – Francia, Inghilterra, USA, Federazione Russa e Cina – di porre il veto sulle proposte avanzate in sede di dibattito. Chiaramente ci si aspettava – come del resto è accaduto – un veto da parte della Federazione Russa nei confronti di una risoluzione volta alla fine del conflitto in Ucraina. 

Ad aggravare la situazione e l’immagine dell’Organizzazione Internazionale agli occhi del mondo è il fatto che, per la seconda volta in vent’anni, un suo stato membro – in particolare uno dei cinque membri permanenti – ha infranto platealmente la legge internazionale e violato la sovranità territoriale di un altro stato, invadendolo. Una simile azione va a delegittimare profondamente le Nazioni Unite, che vedono aggirate le proprie regolamentazioni come se niente fosse, non riuscendo, tra l’altro, ad agire in modo tale da obbligare i responsabili a rispondere di queste infrazioni. Come si è visto in episodi precedenti, quali gli interventi in Kosovo e in Iraq, ad esempio.

Ciò grava sull’istituzione, che già da lungo tempo soffre di un ulteriore deficit di legittimità legato alla spinosa questione della rappresentatività del Consiglio di Sicurezza. I membri dell’Onu presenti nella sua Assemblea Generale, infatti, sono molti (per essere precisi 193) e i posti nel Consiglio di Sicurezza pochi (dieci in totale, se escludiamo i cinque membri permanenti). Per tentare di garantire agli attori in gioco una presenza proporzionata all’interno di tale organismo, viene utilizzato il principio dell’equa distribuzione geografica – ovvero viene scelto un certo numero di rappresentanti per ciascuna zona geografica, partendo dal presupposto che un paese possa rappresentare gli interessi di quelli vicini, perché fra essi contigui e legati da un alto livello di interdipendenza. 

Il sistema forse funziona su carta, ma se messo in pratica esso non basta a garantire la rappresentanza degli interessi di tutti, specie perché si parla non di interessi economici, culturali o sociali ma politici. La questione è abbastanza ovvia: un paese come la Libia o il Marocco difficilmente può rappresentare gli interessi di una nazione sub-sahariana, così come, allo stesso modo, l’India non può decisamente rappresentare gli interessi politici del Pakistan, per quanto essi siano effettivamente vicini geograficamente. Per contro, del resto, l’aumento del numero dei membri del Consiglio di Sicurezza andrebbe a ridurne l’efficacia, complicando ulteriormente i processi decisionali dell’organismo, già abbastanza spinosi da sé. 

Chiaramente, un deficit nella rappresentatività di un organo decisionale va ad inficiare direttamente la sua legittimità e, dunque, a ridurne la rilevanza sul piano di gioco mondiale. Inoltre, esso rende più semplice la comparsa di situazioni come quella odierna, in cui l’Onu viene scavalcato e relegato ad una funzione di spettatore passivo, invece di svolgere il ruolo di attore principale nella gestione delle crisi per il quale è stato creato. Pertanto, parrebbe che le Nazioni Unite si trovino ad un bivio: riformarsi e riprendere fermamente il proprio ruolo o rassegnarsi a vedere la propria autorità ignorata più e più volte, aggravando sempre di più la percezione della sua immobilità nei confronti delle crisi. Tale immobilità viene evidentemente già percepita nell’immaginario comune, se tanto a coloro che sono immersi in prima persona nella crisi, tanto alle persone che li sostengono da lontano, non viene in mente di rivolgersi all’istituzione che ha come obiettivo principale il mantenimento della pace.

[1] Finizio, G., & Gallo, E. (2013). Democracy at the United Nations. UN Reform in the Age of Globalisation (pp. 1-359). Peter Lang.

[2] Finizio, G. (2018, seminario). Il ruolo internazionale dell’UE.

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