L’emancipazione femminile come obiettivo politico autonomo, perseguito con un’organizzazione politica altrettanto autonoma.
Nel momento in cui scrivo, non so ancora i risultati delle imminenti elezioni. Elezioni in cui si teme una Presidentessa del Consiglio. Si teme perché né il sesso né il genere determinano gli ideali politici di una persona, pur’anche quando quest’ultimi sono chiaramente in contrasto con essi. Ma su queste pagine non mi occupo di attualità, bensì di storia, e mi chiedo cosa penserebbe di questa paradossale situazione Anna Maria Mozzoni. E nel silenzio che ci lascia ogni interrogativo rivolto a personaggi storici, vi voglio parlare di lei, che per tutta una vita ha lottato per l’emancipazione femminile rifiutando ogni compromesso.
Anna Maria Mozzoni nasce nel 1837 da una nobile famiglia milanese con ideali risorgimentali. Ma ciò non impedisce loro di prediligere l’istruzione dei fratelli a discapito della sua educazione, delegandola ad un collegio femminile gretto e reazionario. Una volta dimessa, continua a studiare da autodidatta leggendo tutto quello che le capita sottomano, dagli illuministi francesi ai romanzi contemporanei. È nell’ambiente mazziniano che muove i primi passi nel mondo della politica: nei suoi scritti giovanili rifiuta l’idea che il ruolo domestico della donna sia naturale. Esclusa dal “vero” ambiente politico, i suoi strumenti divulgativi sono conferenze, saggi, petizioni; fonda scuole e collabora anche con vari giornali. Forse a noi ci par poco, oggi, pensare che tenesse conferenze in cui chiedeva l’abolizione dell’autorizzazione maritale e pari diritti, incluso il diritto di voto. Eppure bisogna immaginarsi lo scalpore suscitato all’epoca da una donna che viaggiava da sola e pretendeva di essere ascoltata, in un contesto in cui una donna, una volta sposata, dal punto di vista legale non aveva diritti ed era equiparata ai bambini e agli infermi mentali. Non poteva disporre del proprio denaro, acquistare o vendere le proprie proprietà, non vantava diritti sulla prole. Solo nel momento in cui infrangeva le regole, solo allora la donna diventava legalmente capace di intendere e volere e quindi meritevole di punizione.
Un’agitatrice politica, insomma, e lei lo sa bene. Il suo discorso Del voto politico alle donne inizia con un preambolo in cui loda l’ascoltatore, raccontandogli quanto sia di larghe vedute, in quanto il tema trattato sia modernissimo e comprensibile solo ai più eletti. Li sta prendendo un po’ in giro, è chiaro dal tono del resto del discorso, ma mette anche in luce quanto chiedere i diritti più elementari per il sesso femminile possa essere incendiario. Infatti la conferenza prosegue con una logica ferrea, condita con del sano umorismo, come solo chi deve ridere di fronte alle sventure sa fare, smontando sistematicamente ogni argomentazione contro il voto alle donne. Sia essa l’ignoranza, la scarsa attitudine alla vita pubblica, lo scarso interesse per la politica, o la temuta manipolazione da parte della Chiesa. Una ad una, senza tralasciarne alcuna, con rigore e metodo presenta le obiezioni e le invalida, dimostrando i semplici fatti, che sono sotto gli occhi di tutti: come la presenza e l’influenza delle donne sia pervasiva, anche senza autorizzazione, in tutti gli ambiti della vita, dalla casa al palcoscenico, nei negozi, nei mercati e nelle fabbriche.
«Qual grado di intelligenza si esigerà per essere elettore? Saper leggere e scrivere? Esigete dippiù, o signori, perché io conosco bene le nostre compagne e non vorrei che gli elettori risultassero assai più scarsi delle elettrici».
Impavida, non retrocede di un passo e sottolinea anche la contraddizione dei democratici che tanto lottano per le libertà, soprattutto nei paesi stranieri, ma vogliono mantenere la servitù nelle proprie case, «perché lì dove voi signoreggiate, lì soltanto non vi pare opportuna la libertà».
L’emancipazione è lo scopo finale, il voto la prima pietra miliare da ottenere. Se la classe politica si occupa solo di coloro che li votano, che li possono votare, le donne devono passare dal voto per poter poi affrontare le altre problematiche che le riguardano, per poter essere prese sul serio, per essere viste. Ed è quindi questo l’obiettivo che Anna Maria Mozzoni persegue strenuamente per una vita, in solitaria. Collabora, litiga, si relaziona ma non si lega mai a nessun partito. Può sembrare una posizione marginale nel panorama politico dell’epoca, invece è espressione di un pensiero politico cristallino. L’emancipazione non era solo lo scopo ma anche il mezzo. Non andava sporcato, né compromesso, né perso per strada o confuso con altre lotte. L’emancipazione femminile come obiettivo politico autonomo, perseguito con un’organizzazione politica altrettanto autonoma. Anna Maria era cosciente dell’interconnessione tra la questione sociale e l’affermazione dei diritti con l’avvento della modernità e il diffondersi della produzione industriale e quindi del lavoro delle donne. Obiettivo politico autonomo non significa avulso dal suo contesto, ma non si illudeva che questo sarebbe stato raggiunto come effetto secondario, quasi un felice effetto collaterale di un’altra lotta. Non sarebbe stata la patria dei mazziniani, o la democrazia dei radicali o il potere alla classe operaia dei socialisti a cambiare la condizione della donna. La suprema, la più radicale delle questioni sociali va quindi sì coordinata, ma mai subordinata ad altre lotte. Fermamente convinta che non solo non bisogna rendere condizionata la lotta, ma neanche delegarla, era proprio delle donne il compito di conquistarsi i diritti e le libertà; perché quando ricevuti in dono non sono altro che illusioni. Difatti, è celebre la sua disputa con Anna Kuliscioff, con la quale aveva prima collaborato nell’ambito del partito socialista. Kuliscioff stava lavorando per ottenere una legge che tutelasse le donne sul posto di lavoro, mentre la Mozzoni sosteneva che le donne dovessero conquistarsi i diritti sul posto di lavoro tramite i sindacati, e temeva che delle leggi a loro tutela avrebbero da una parte sminuito la loro indipendenza e dall’altra giustificato una maggiore discriminazione. Un dibattito che ancora oggi ci suona assai attuale.
«Non otterremo» ‒ chiosa alla fine Del voto politico alle donne ‒ «ma avremo affermata la nostra maturità e volontà, non otterremo oggi e noi ci ripresenteremo domani, eppoi ancora, eppoi sempre, fino a che posto fra l’uscio e il muro dell’ammasso dei conti arretrati, il privilegio ceda finalmente all’opportunità di concedere quel che gli sfugge e la democrazia abbia capito la necessità della logica».
Sapeva che lei, personalmente, non avrebbe mai votato, e infatti moriva a Roma il 14 giugno del 1920, dopo essersi allontanata dalla lotta politica. Non ha mai votato ma aveva ragione. Tante han costruito sul suo lavoro, si son ripresentate e ripresentate ancora. E mentre ci rassegniamo al fatto che emancipazione vuol dire anche il diritto ad essere delle pessime persone, e la sottoscritta attende intrepida lo svilupparsi della situazione, mi permetto di immaginare con un po’ di presunzione che anche Anna Maria sarebbe come minimo sbigottita dagli avvenimenti, ma che ci direbbe di presentarci e ripresentarci ancora, di farci sentire, perché prima o poi dovranno cedere il passo. D’altronde ora votiamo.
[1] Dipartimento per le pari opportunità, “Italiane Volume I”, Roma (2004)
[2] S Mozzoni, Anna Maria, “Del voto politico alle donne” Passerino (2014)
Illustrazione di Filippo Ronzelli