Il poema di Parmenide di Elea aveva lasciato ai suoi allievi il grave compito di trovare una soluzione al problema del “non-essere”, ovvero trovare risposta alla domanda circa il rapporto tra l’Essere e la sua negazione. Se, come abbiamo visto, l’Essere parmenideo è ciò di cui si deve necessariamente predicare «è, e non può non essere», come si dovranno intendere tutte le realtà transeunti, mutevoli e divenienti delle quali si fa esperienza sensibile nel mondo? È necessaria un’opera di vero e proprio salvataggio: si devono “salvare i fenomeni”, sottrarre il divenire dalla caduta nel campo del non-essere.
Il compito spetta all’Ospite di Elea, un personaggio fittizio ‒ allievo di Parmenide in visita ad Atene ‒ che nel dialogo “Il Sofista” Platone pone a discutere con il giovane Teeteto. Il titolo è indice del primo contenuto del discorso; la domanda che guida il dialogo è infatti: “chi è il sofista?”. Sarà proprio dalla ricerca di tale definizione che comparirà la risposta alla domanda ontologica fondamentale.
Dopo aver trovato ben sei definizioni diverse di “sofista”, la ricerca si volge ad indagare la natura dei discorsi di quest’ultimo. Infatti egli insegna dietro compenso, ai giovani delle città, molte cose, ma queste non sempre sono “secondo verità”; tuttavia a questo punto emerge il problema fondamentale:
L’Essere è il vero, pertanto pensare o dire il non-essere (-vero) equivale al pensare e dire l’impossibile.
La questione è semplice solo a prima vista; il ragionamento platonico, infatti, prosegue in questo modo: un’immagine è una parvenza della realtà (del vero), e tuttavia non è la realtà stessa, poiché, appunto, è solo la sua immagine. Se la realtà è il vero (il reale rispetto all’irreale), allora ciò che “non è vero” è contrario al vero, e quindi è il falso. Il vero, inoltre, è l’essente, ciò-che-è, e quindi il non-vero sarà il non-ente, cioè il ni-ente, il non-essere. Tutto si complica quando si approccia anche il tema della falsità: «[…] un ragionamento errato o falso sarà ritenuto tale per la stessa guisa: in quanto afferma che quanto è, non è; come pure in quanto afferma che quanto non è, è.»
Dire del sofista che egli produce immagini fallaci della realtà significa dire che il non-essere in qualche modo è, e che l’essere in qualche modo non è. Se infatti si tien ferma la posizione di Parmenide, allora qualcosa come le parvenze fittizie della realtà e la falsità o l’errore non potrebbero esistere. L’Essere è il vero, pertanto pensare o dire il non-essere(-vero) equivale al pensare e dire l’impossibile, in quanto la via del non-essere è impercorribile ‒ perché il non-essere è l’impensabile e l’indicibile (al di fuori del campo dell’Essere, ovvero del Tutto). Il sofista, quindi, nella sua difesa rispetto all’accusa di essere un “ciarlatano”, riesce a far dire all’avversario che il non-essere in qualche modo è, e l’Essere in qualche modo non-è. Difatti delle due l’una: o il sofista mente, e allora chi lo accusa di mentire ammette l’essere del non-essere, oppure la posizione di Parmenide è tenuta ferma ed è impossibile accusare di falsità il sofista, qualunque cosa egli sostenga. A fronte di questa dicotomia così radicale, l’Ospite è costretto ad agire sulla posizione del suo stesso maestro:
Ospite – Ma allora con tanto maggior calore dovrei rivolgerti una preghiera.
Teeteto – Quale preghiera?
Ospite – Non vorrei che tu vedessi in me un malvagio parricida.
Teeteto – Perché?
Ospite – Se dovrò persistere a cercar difesa contro il sofista, mi sarà inevitabile sottoporre ad attenta prova il sistema di Parménide, il padre mio. Mi troverò costretto a far forza nella mia dimostrazione e a concludere che il non essere in un certo senso è pur essere e che l’essere reciprocamente è non essere in un certo senso. [Il Sofista, 241, d1-d10]
A questo punto la discussione si fa serrata e complessa, e risulterebbe difficile e lungo affrontare qui ogni passaggio. Per questo motivo affronteremo solo quelli fondamentali.
Il primo rilevamento da compiere è che l’Essere è Uno poiché, se fosse molti, ogni alterità rispetto ad esso cadrebbe necessariamente nel non-essere. Il secondo è la necessità di preservare la presenza dell’intelletto nell’Essere; infatti ogni ricerca di conoscenza dipende dall’intelletto, questa compresa.
Perché si dia intelletto è necessario che si dia sia il moto che l’immobilità; infatti nell’operare dell’intelletto è necessario sia il movimento dell’argomentare sia l’immobilità delle premesse o dei principi.
“Quiete” e “moto” costituiscono l’Essere e quindi sono, ma allo stesso tempo non sono in identità con esso, in quanto se l’Essere fosse in identità sia con la quiete che con il movimento verrebbe ad essere un immobile-mobile e quindi qualcosa di impossibile: «Ospite – Allora movimento e quiete, presi nel loro insieme, non sono l’essere. L’essere è qualche cosa diversa dall’uno e dall’altro.». Sarà quindi necessario indagare se sia possibile che allo stesso nome (Essere) si attribuiscano diversi predicati anche quando essi siano l’uno il contrario dell’altro (quiete-moto).
La risposta è che la predicazione può avvenire per determinati predicati e non per altri, ossia è possibile predicare dello stesso nome alcune cose e non altre: in alcuni casi è possibile il processo di partecipazione ed in altri no.
Si è giunti quindi a riconoscere come necessaria l’esistenza di almeno tre generi fondamentali: Essere, quiete, divenire. Il rilevamento successivo è che non è possibile identificare quiete e moto tra loro, ed allo stesso modo non è possibile che essi siano il medesimo dell’Essere. In altre parole, la quiete evidentemente non è il moto e viceversa, e l’Essere non è in identità né con la quiete né con il moto (altrimenti sarebbe allo stesso tempo in stasi ed in movimento, e questo sarebbe assurdo) ma tra di esso e gli altri due vi è un rapporto di partecipazione: quiete partecipa dell’Essere e moto altrettanto.
Tra quiete e moto è invece impossibile la partecipazione, e il loro rapporto sarà quello di contrarietà o, più precisamente, alterità.
La risposta è che “medesimo” e “altro” sono due generi che al pari di “quiete” e “moto” partecipano dell’Essere, ma sono tra loro in rapporto di contrarietà. Nessuno di essi si identifica con l’Essere, e nessuno è identico ad un altro: il rapporto di alterità sussiste tra un genere e l’altro, mentre il rapporto di medesimezza sussiste tra un genere e se stesso; ogni genere è medesimo con sé e altro con gli altri. Pertanto l’Essere è composto da “cinque generi sommi” con i loro particolari rapporti – e questo perché cinque è il minor numero possibile di generi da dover accettare per poter ragionare sull’Essere.
Stringiamo ora i nodi dell’argomentazione per arrivare al punto focale; ci serviremo delle parole dello stesso Platone:
In quanto partecipi dell’Essere le cose sono; in quanto diverse, altro, rispetto all’Essere le cose non sono Essere, e quindi non sono. Questa è la difficoltà da superare, sulla scorta di tutto il ragionamento operato finora. La risposta di Platone è, a prima vista, semplice ma in realtà di un’importanza inimmaginabile per il futuro del pensiero umano, poiché sulla base del nostro modo di intendere che cos’è l’Essere e che cos’è il non-essere abbiamo costruito il mondo come oggi lo conosciamo. Leggiamo le sue parole:
Esistono quindi due tipi di non essere: il non essere relativo (hèteron), ovvero il non essere qualcosa perché si è diversi da quella cosa, e tuttavia si rimane qualcosa “che è”; il non essere assoluto (enantìon), ovvero il non essere come opposto all’Essere, e cioè il nulla. Platone ci dimostra come l’espressione “non essere” (e quindi, in generale, la forma negativa “non”) contenga in sé due significati molto diversi: una è l’alterità, l’altra è la contrarietà. Il diverso dall’Essere è pur sempre un essere (è un non-essere-il-medesimo, e quindi l’Essere-altro), mentre il contrario dell’essere è il non-essere (il non-essere-Essere, il ni-ente, il nulla).
Ogni cosa, ogni ente, è pertanto frammista al non essere, in quanto ogni cosa è in alterità rispetto alle altre, ed in questo senso essa contiene il non-essere (-altro). L’errore e la falsità, quindi, sono presenti nei discorsi quando in essi vi è errata predicazione, ovvero si mettono assieme idee che non dovrebbero essere accostate. Negare queste fallaci catene d’idee non significa negare l’Essere, ma negare quel discorso che predica come appartenente a qualcosa ciò che in verità non gli appartiene (ciò che razionalmente non gli può appartenere).
Non si ha lo spazio, qui, per dimostrare quanto questa soluzione platonica abbia influenzato tutto il pensiero filosofico e, in un certo senso, costruito il modo stesso di pensare che noi ancora oggi applichiamo quando viviamo nel mondo e quando, con la nostra Tecnica, lo creiamo.
Concludiamo però dando per l’ultima volta la parola al (nostro) Ospite di Elea, che parla ai suoi interlocutori e parla a noi, a voi, per ricordarci cosa significhi ragionare assieme su questi temi, e toccare con la mente queste vette:
[1] Tutte le citazione del testo sono tratte da Platone, I Dialoghi, L’Apologia e le Epistole, versione e interpretazione a cura di Enrico Turolla, 3 voll., Rizzoli, Milano 1964. In particolare: Il Sofista, vol. II, pp. 733-832. Benché priva di testo a fronte, chi scrive predilige questa versione per la bellezza letteraria e la chiarezza che il traduttore ha saputo rendere, dando pieno merito all’opera platonica.