Alla Livella, però, siamo sensibili al fascino del passato. Quindi, per questo numero, ho pensato di parlarvi di un’applicazione nanotecnologica che ha più di mille anni.
Cercando la parola “nanotecnologia” tra le immagini proposte da Google, compaiono quelle di minuscoli robot che tagliano e cuciono il DNA, circuiti elettrici dall’aspetto futuristico, microscopiche astronavi capaci di attaccare singole cellule infette, etc. E, in effetti, questi esempi sono rappresentativi di ciò che gli scienziati cercano cercano, oggi, di creare. La miniaturizzazione dei circuiti è ciò che ha permesso l’evoluzione dai computer che occupavano un’intera stanza degli anni Cinquanta ai potentissimi smartphone che oggi infiliamo in tasca. L’utilizzo di nanoparticelle in medicina permette (e permetterà) interventi meno invasivi di diagnostica, somministrazione di farmaci e rimozione di tumori.
Alla Livella, però, siamo sensibili al fascino del passato. Quindi, per questo numero, ho pensato di parlarvi di un’applicazione nanotecnologica che ha più di mille anni.
Il primo impiego di nanoparticelle risale, infatti, al IV secolo d.C., in epoca romana. Si tratta di un calice di vetro molto pregiato, “la coppa di Licurgo”, decorato in altorilievo con le figure di Dionisio, il suo acerrimo nemico Licurgo e il dio Pan. Al di là del racconto mitologico, però, la particolarità della coppa risiede nel fatto che essa assume colori diversi a seconda di come la si illumini. La luce riflessa, infatti, fa apparire la coppa di un forte colore verde. La luce trasmessa, al contrario, la fa brillare di un rosso acceso. Tale fenomeno è dovuto alla presenza di nanoparticelle d’oro e d’argento sparse all’interno del vetro del calice. Le nanoparticelle d’oro, infatti, assorbono la luce blu, lasciando passare quella rossa. Le nanoparticelle d’argento, invece, sono responsabili della riflessione della luce verde.
Questa spiegazione, però, è chiaramente incompleta. Dire quali particelle sono responsabili dei vari colori non dice nulla riguardo al modo in cui tale fenomeno funzioni davvero, né spiega il ruolo della dimensione delle nanoparticelle: perché occorre che siano nano per produrre tali colori?
Innanzitutto stabiliamo cosa significhi ‘nano’. Questa sigla significa ‘un miliardesimo’. Perciò un nanometro è un miliardesimo di metro, ovvero un millesimo di millesimo di millesimo di metro, oppure, equivalentemente, un milionesimo di millimetro. Per capire quanto piccolo sia un nanometro, sappiate che lo spessore di un capello umano è circa centomila nanometri. Una nanoparticella è una particella che ha le dimensioni di qualche decina o centinaia di nanometri, ovvero circa mille volte più piccola dello spessore di un capello umano.
Chiarito quali siano le lunghezze in gioco, possiamo domandarci per quale ragione la materia, quando assume dimensioni così piccole, presenti proprietà ottiche peculiari. Per rispondere, occorre sapere che la luce è un’onda (elettromagnetica) e come tale possiede una lunghezza d’onda, data dalla distanza tra due picchi consecutivi. Si dia il caso che la luce visibile, ossia quella responsabile dei colori che noi umani siamo in grado di vedere ad occhio nudo, abbia lunghezze d’onda che vanno da circa cinquecento nanometri (luce blu) a circa ottocento nanometri (luce rossa). Quando un fascio di luce illumina una particella di grandezza comparabile o inferiore alla sua lunghezza d’onda, si iniziano a vedere effetti ottici ‘speciali’.
Gli elettroni contenuti nella nanoparticella, infatti, iniziano ad oscillare coerentemente e collettivamente seguendo l’effetto ondulatorio della luce che li sta attraversando. È come se gli elettroni appartenenti alla particella ondeggiassero tutti assieme, facendosi trasportare dalla luce. Se la particella fosse più grande, gli elettroni non ondeggerebbero assieme e si perderebbe questo effetto collettivo. L’ampiezza del moto ondulatorio degli elettroni è determinata dalla lunghezza d’onda utilizzata. E la lunghezza d’onda che massimizza tale fenomeno può essere variata modificando la geometria della nanoparticella, le sue dimensioni e la natura degli atomi che la compongono. In questo modo, possiamo ottenere nanoparticelle che assorbono la luce rossa oppure verde, gialla o blu, creando gli effetti cangianti presenti, ad esempio, nella coppa di Licurgo.
Lo stesso fenomeno è visibile nelle vetrate di alcune chiese medievali. Perciò, la prossima volta che vi capita di visitare una chiesa le cui finestre sembrano particolarmente brillanti e cangianti, potrete spiegare a chi vi accompagna che si tratta dell’effetto delle nanoparticelle sparse nel vetro – anche se non fosse vero per quella specifica finestra, chi potrà mai correggervi?