L'autoritratto
negato

Michele Diego
Letteratura

Nella sua casa di campagna, Jacques Lacan custodiva segretamente il dipinto di Courbet “L’origine del mondo”, raffigurante il sesso ostentatamente esposto in primo piano di una donna distesa a gambe aperte. Lacan, che aveva un gusto tutto suo per le cerimonie, aveva chiesto all’artista André Masson di dipingere una tela che coprisse perfettamente il quadro di Courbet. Poi, attraverso un congegno che permetteva di far scorrere su un binario i due quadri, Lacan poteva “spogliare” il quadro nascosto di Courbet. E si divertiva a scandalizzare i suoi ospiti, osservando nei loro volti lo stupore mentre prolungava il più possibile il rito dello spogliarello del quadro.

Che il proibito, il nascosto, l’occultato siano forme perfette di fascinazione è un teorema talmente arcinoto che non occorrerebbe spiegarlo. E la storia dell’arte è l’esempio par excellence di questo teorema.
Oggi fa parlare di sé l’opera venduta al prezzo più caro di sempre, il “Salvator mundi”, attribuita a Leonardo, battuta all’asta per 450 milioni di dollari da Christie’s e attualmente scomparsa nel nulla (c’è chi dice sia appesa in uno yacht). Un occultamento più sottile vede protagonisti Salvador Dalì e “L’angelus” di Jean-François Millet, in cui due contadini sono raccolti in preghiera in mezzo a un campo. Dalì, ossessionato dal dipinto da Millet, sostenne che l’afflizione dei contadini ritratti non potesse essere attribuita a una forma di devozione durante la preghiera, ma solo alla desolazione di fronte alla morte. Sicuro della sua ipotesi, Dalì convinse il Louvre a fare un’analisi ai raggi-X del quadro, da cui emerse effettivamente la presenza di una forma rettangolare nascosta sotto gli strati di pittura, simile alla bara di un infante.

Un uomo elegantissimo, chiuso in un colletto alto e stretto quasi ermeticamente dalla cravatta; come se l’abito gli facesse da scudo dal mondo esterno, volgare e spietato.

Anche io, recentemente, ho subito il potere d’attrazione di un’opera che mi è stata in qualche modo negata. Si tratta dell’autoritratto di Aroldo Bonzagni; tra gli autoritratti più intensi del novecento italiano. Sui libri e su internet avevo letto che l’opera è conservata al museo del Novecento di Milano. Così, una volta arrivato con due amici al museo, ho iniziato a visitarlo compiacendomi sì dei grandi artisti esposti, ma in cuor mio sperando sempre di ritrovarmi finalmente di fronte a Bonzagni. Certo mi rendo conto che il nome di Bonzagni non ha lo stesso eco di altri appartenenti al museo come de Chirico, Morandi, Fontana o Modigliani, ma la sua opera e la sua vita hanno per me motivo di inesauribile affezione.
Bonzagni è vissuto solo trentun anni e per me, che ho pressapoco la sua età quando è morto, ciò significa che tutta la sua opera appartiene a una mente a me coetanea ed affine. Bonzagni era l’uomo delle feste alla moda, dell’eleganza dal sapore dandy, delle pellicce e dei cappelli a cilindro, dei sorrisi beffardi e degli amori fulminei. E in parte la sua produzione è questo: la sfilata di un’umanità mondana, pronta per entrare a una prima teatrale, decorata da lunghe piume, gioielli, monocoli e lussuosi bastoni da passeggio. Ma esiste anche un altro Bonzagni. È il Bonzagni la cui intelligenza non gli permette di godersi sfrenatamente la vita salottiera e lo costringe a rivolgersi ai disperati, agli emarginati della società, dipingendo la sofferenza di chi nella vita è arrivato ultimo. Bonzagni, per me, non è un uomo che ha scelto la mondanità per capriccio o frivolezza, l’ha scelta per proteggersi da un mondo crudele che la sua sensibilità non gli permetteva di sopportare.
E il suo autoritratto è la massima rappresentazione di quanto ho scritto. Vi si vede un uomo elegantissimo, chiuso in un colletto alto e stretto quasi ermeticamente dalla cravatta; come se l’abito gli facesse da scudo dal mondo esterno, volgare e spietato. Lui appare dolorosamente bello -persino di più di quanto non fosse in realtà-, con i capelli alla Hugh Grant e le labbra scarlatte quasi femminee. I suoi occhi però lasciano trapelare il dolore che prova per ciò che lo circonda. Lui è perfetto, ma tutt’attorno il mondo è una visione opprimente.
Io cercavo quegli occhi e quella perfezione. Arrivato però verso la parte conclusiva del museo, ho iniziato a intuire che l’autoritratto non c’era. Così ho coinvolgo alcune assistenti di sala che lavoravano lì. Tutte erano gentili e pronte ad aiutarmi, ma nessuna aveva mai sentito parlare di Bonzagni. Una di loro mi ha detto di non aver mai visto quell’opera, ma ha tenuto a giustificarsi assicurandomi che il museo l’aveva visitato tutto. Un’altra, col mio telefono in mano sul cui schermo era mostrato l’autoritratto in questione e con su scritto il nome e cognome dell’artista, ha esclamato:
« Ah, Bonzaghi!»
« Bonzagni!» ho fatto io.
E lei: «Ah, Aldo Bonzagni!»
«Aroldo Bonzagni!» di nuovo io.
A quel punto io mi sono rivolto a un amico per dire che una scenetta simile mi era già capitata a Ferrara e la ragazza è tornata a dire: «Ah, Ferrara Bonzagni?»
Ad ogni modo, al di là della incolpabile inconsapevolezza circa l’esistenza di Bonzagni da parte di persone gentili che speravano solo di darmi una mano, non siamo riusciti a capire se il quadro fosse stato venduto, esposto in un altro museo, o che fine avesse fatto. Così ho scritto un’email al museo, che nel giro di ventiquattro ore mi ha risposto, dicendo che l’autoritratto è conservato nei loro depositi. Il che per me equivale alla consapevolezza che difficilmente potrò mai vederlo. E forse è un bene, o almeno è una consolazione pensarlo. Quando il “Salvator mundi” riapparirà definitivamente e verrà esposto in un museo, ricorderemo più la sua storia e la sua scomparsa che non la bellezza del quadro in sé. Quando Dalì ebbe dal Louvre il responso del test a raggi-X su “L’Angelus”, la sua ossessione iniziò a smorzarsi. Io, di tutti i capolavori meravigliosi che ho visto al museo del Novecento e a Milano, più di ogni altro ricordo l’autoritratto che non ho potuto vedere.

Nell’immagine:
Il tram di Monza (dettaglio), Aroldo Bonzagni, 1910-1915 circa, collezione privata.