Il molteplice
e l’Uno

Thomas Masini
Approfondimenti
(Filosofia)

Per poter compiere il passaggio dalla filosofia antica alla teologia razionale medievale è necessario comprendere i punti fondamentali del pensiero ontologico antico, e la rilettura che di essi dà Plotino, storicamente inquadrato come pensatore neo-platonico. In quest’ottica il presente scritto sarà un confronto tra gli autori già presentati nei numeri precedenti di questa rivista.

Parmenide di Elea aveva definito l’Essere attraverso un’assoluta contrapposizione logica rispetto al non-Essere. Una definizione via negationis dell’Essere parmenideo si può infatti formulare in questo modo: tutto ciò che non è non-Essere. In questo modo l’Essere ‒ pensato attraverso il lògos ‒ assume caratteri precisi ed assoluti: totalità, eternità, compiutezza, pienezza e immobilità; la violazione di uno qualsiasi di questi caratteri comporterebbe un certo tipo di ‘infiltrazione’ del non-Essere nell’Essere, e questo sarebbe l’impossibile. Proprio l’immobilità dell’Essere (la sua eterna auto-identità concreta) istituiva il problema del suo rapporto con il diveniente. 

Poiché il motore immobile  è atto totalmente dispiegato (totalità attuale di ogni possibilità) l’oggetto del suo pensiero è esso stesso: la sua attività è pensiero di pensiero (noésis noéseos)

 

In poche parole: l’Essere è eterno ed eternamente identico a se stesso, ma gli enti – le cose che sono, i sensibili – divengono, ovvero mutano forma, colore e sostanza; come è possibile accordare la Verità del lògos (‘logica’) con la verità che i nostri sensi sperimentano ogni giorno? La risposta parmenidea era chiara: i sensi sono ingannatori, e quella che loro percepiscono non è Verità ma opinione (dòxa). Questa posizione, se non contraddittoria almeno molto instabile, non poteva soddisfare i filosofi successivi. 

    Platone compie il cosiddetto ‘parricidio’, ossia confuta la posizione parmenidea nel tentativo di ‘salvare i fenomeni’ dal rischio di ricadere all’interno della dimensione del non-Essere. Già si è parlato, nello scritto dedicato a questo filosofo, dei cinque ‘Generi sommi’ (Essere, Quiete, Moto, Identico e Diverso) e del non-Essere relativo e assoluto ma si tratta ora di capire il passaggio dall’assolutezza dell’Essere ai molteplici enti sensibili.
Allievo di Socrate, egli parte proprio dall’analisi delle domande socratiche sugli universali; ad esempio: “che cos’è il Bene?”, “che cos’è la Giustizia?”. Se gli uomini possono cercare di rispondere a tali quesiti significa che li comprendono, e che quindi qualcosa come ‘il Bene’ o ‘la Giustizia’ esistono nell’intelletto – sono comprensibili razionalmente. In quanto assoluti – cioè sciolti dal mondo sensibile – vengono definiti da Platone ‘Idee’. Ma che cos’è un ‘idea’ in senso platonico? Può essere definita come l’intelligibilità dell’Essere stesso, o, in altre parole, il suo essere trasparente al pensiero. Il campo dell’Essere è diviso in due: il mondo delle Idee che è comprensibile intellettualmente, e il mondo degli enti che è esperibile con i sensi. Gli enti però, debbono la loro intelligibilità, e il loro essere ciò che sono, al fatto di essere ‘immagini’ delle Idee. In quello che viene definito Iperuranio si trovano le Idee pure – non informate materialmente – le quali hanno quasi gli stessi attributi dell’Essere parmenideo: universali, sempre identiche a sé, necessarie, eterne, immutabili; ma sono anche immateriali, trascendenti, conoscibili solo intellettualmente e qualitativamente superiori agli enti materiali. Questi caratteri specifici sono una definizione via negationis delle Idee, ossia determinano la loro differenza rispetto agli enti sensibili. Ma esse hanno un rapporto stretto con quest’ultimi: infatti gli enti sensibili sono immagini imperfette delle Idee, e hanno con esse due rapporti: di imitazione (mìmesis) e partecipazione (mèthexis). Semplificando molto potremmo proporre il seguente schema: nell’Iperuranio vi sono le Idee pure (l’idea di Giustizia, l’idea di Bene, l’idea di ‘tavolo’, l’idea di ‘sedia’ etc.), e nel mondo vi sono gli enti (le cose buone, le cose giuste, i tavoli e le sedie). Prendiamo un tavolo materiale: esso è un tavolo perché imita l’Idea di tavolo ed esiste (è un ente) perché partecipa dell’Idea di tavolo. Ogni tavolo esistente nel mondo sensibile è un ‘tavolo’ proprio perché imita e partecipa dell’Idea di tavolo, ma poiché l’imitazione e la partecipazione saranno sempre imperfette (altrimenti vi sarebbe identità tra il tavolo sensibile e la sua Idea) ecco che esistono tavoli diversi per forma, colore e materia. Si potrebbe dire che ciò che definisce e accomuna tutti gli oggetti che noi chiamiamo ‘tavolo’ è proprio il loro rapporto con l’Idea di tavolo.
Si deve tener presente che per Platone (e per quasi tutta la filosofia antica) vale in linea di principio l’assioma ex nihilo nihil fit (nulla viene dal Nulla), ed infatti la materia (chòra) di cui sono composti gli enti sensibili è eterna ed informe; essa però possiede in sommo grado la capacità di essere ricettacolo di forme, e può assumere per rapporto mimetico le forme proprie delle Idee. Tuttavia la materia è totalmente nella dimensione, appunto, materiale, mentre le Idee sono totalmente nella dimensione dell’intelligibile. Come possono entrare in relazione tra loro? Serve un’intelligenza manipolatrice che abbia assieme la capacità di accedere al mondo ideale e di manipolare la materia inerte, persuadendola ad imitare le Idee. Questo compito spetta al Demiurgo, che è la causa cosciente della partecipazione degli enti sensibili alle Idee. Nella filosofia tarda di Platone viene posto l’accento sui caratteri della proporzione, della misura e del limite, in una parola dell’ordine (kòsmos) al quale l’Essere tende, ossia la sua struttura armonica ed ordinata. In questo senso il molteplice si risolve verso l’unità, e questo accade anche nel regno intelligibile delle Idee. Manifestando il suo intento primario che gli deriva dal maestro Socrate, ossia intendere la filosofia come un percorso etico che possa mostrare all’uomo come ‘ben vivere’ per ‘diventare felice’, Platone pone al culmine del mondo intelligibile l’idea di Bene. Il Bene ideale non è un idea fra le altre, ma la vera e propria causa delle altre idee: come il sole (la luce) è causa della conoscibilità e dell’esistenza del mondo sensibile, così il Bene è causa della conoscibilità e dell’esistenza del mondo intelligibile; questo al puto che negli scritti platonici Socrate dice in modo oscuro ed enigmatico che l’Idea del Bene è l’unica superiore all’Essere per dignità e potenza – e negli ultimi scritti ci si riferisce sempre più spesso ad essa come all’Uno.
Il movimento Platonico è quindi riassumibile come un discendere dell’esistenza dall’universale al singolare: solo gli universali (le Idee) sono propriamente sostanze (ovvero esistono di per sé), mentre i singolari (gli enti sensibili) esistono solo prendendo in prestito l’esistenza dagli universali cui partecipano.

 

Aristotele, partendo dalla critica dell’ontologia platonica, in pratica ribalta la posizione del suo maestro. Egli infatti nota come una sostanza (hypokémenon) sia per definizione ciò che sussiste di per sé, ovvero che non deriva la sua esistenza da null’altro che da se stessa. L’universale, invece, riceve la sua esistenza dal suo incarnarsi in un singolare, ovvero in un determinato concreto. Per capire meglio si prenda l’universale ‘rosso’; esso non esiste concretamente se non come ‘predicato’ o ‘attributo’ di un ente particolare: esiste il vaso rosso, il fiore rosso, la vernice rossa, la tempera rossa, etc., ma non è possibile esperire il ‘rosso’ nella sua universalità, ossia a prescindere dal suo essere attributo di qualcosa. In questo senso per Aristotele, poiché il ‘rosso’ sussiste grazie al rapporto di predicazione, non può essere sostanza. Allo stesso modo l’idea di tavolo esiste solo come predicato di tutti gli enti che sono tavoli e dei quali noi possiamo fare esperienza nel mondo.
La sostanza quindi possiede due caratteri: l’indipendenza ontologica (la sua sussistenza non dipende altro che da se stessa) e la determinatezza (è un che di determinato ma non di universale). Inoltre, essa ha la capacità di essere soggetto di predicazione, e lo si comprende bene dall’analisi del termine greco: hypokèimenon (sub-stantia, sub-jectum): ‘ciò che sta sotto’, e quindi ciò che sostiene i predicati (ad esempio “il bicchiere rosso, basso, scheggiato”: ‘bicchiere’ è la sostanza che sostiene i predicati dell’‘essere rosso’, ‘basso’ e ‘scheggiato’). Per lo Stagirita il carattere della determinatezza significa che la sostanza è sempre un ‘tòdetì’, cioè un ‘questo qui’ ‒ qualcosa che può essere oggetto di una deissi, che può essere indicato. Ma allora come definire concretamente una sostanza? Essa è sìnolo (unione) di materia e forma. La materia è eterna ma indeterminata, indefinita, e acquisisce la sua determinatezza grazie alla forma che incarna. Ma allora, se gli enti sono un’unione di materia e forma che può essere sciolta, la sostanza è diveniente e corruttibile, e sembrerebbe necessario reintrodurre il concetto di non-Essere che Parmenide e Platone tanto avevano faticato ad eliminare dal campo dell’Essere. Aristotele ha una soluzione originale per un vecchio problema; non è necessario introdurre due tipi di non-Essere, ma due tipologie di Essere: l’essere in potenza e l’essere in atto. Vediamo un esempio: si prenda un seme; esso è in atto un seme, ma in potenza è un albero. La comparsa dell’albero non è il non-essere del seme, come reciprocamente la presenza del seme non è il non-Essere dell’albero. Seme ed albero sono entrambi presenti nel seme, ma il primo in atto, e il secondo in potenza (il seme ha già in sé la potenzialità dell’essere albero).
Tralasciamo qui, per necessità di spazio, la problematica delle categorie e la necessità di reintrodurre un piano sovrasensibile per spiegare la permanenza della forma. Ciò che preme spiegare è l’introduzione dell’unità.
Se la sostanza è sìnolo di materia e forma, allora essa è soggetta necessariamente al movimento e al divenire (in quanto la materia è sempre in potenza, ovvero sempre essenzialmente destinata al mutamento). Ma per poter spiegare il sìnolo è necessario che vi sia qualcosa di non sensibile e non diveniente; per questo Aristotele introduce l’eternità del movimento. Per prima cosa egli si impegna a confutare l’idea che il movimento possa avere avuto un inizio: ogni cosa che si muove è mossa da qualcosa, da un motore. Se in principio non vi era movimento, allora questo motore o non esisteva o non muoveva. Se non esisteva dev’essere stato creato, ma questo presupporrebbe un movimento creativo, e quindi un movimento. Se invece non muoveva vi potevano essere solo due motivi: o qualcosa gli impediva di muovere, ma questo impedimento è a sua volta un movimento (anche se di natura contraria), oppure doveva essere messo in moto, ma ciò che l’ha messo in moto doveva essere a sua volta un movimento. Insomma, per ogni possibilità sarebbe necessario creare una catena di cause infinita, ma vale il principio che il regressus in infinitum non è una spiegazione accettabile. Se ne deduce quindi che il movimento è infinito così come il tempo (esso si compone di istanti, ma non può esistere un istante primo del tempo o un istante ultimo perché essi sarebbero eterni e quindi non vi sarebbe mai istante dopo il primo, né istante prima dell’ultimo).
Ora, la causa del movimento eterno deve a sua volta essere eterna (produrre movimento in eterno), e pertanto vi deve essere un motore primo ed eterno. Questo inoltre non può essere mosso da alcun altro motore, e ogni cosa mossa è mossa non da sé ma da altro. Pertanto si deduce che vi è un Primo Motore Immobile ed eterno, il quale muove ogni cosa ma da nulla è mosso. Ora sorge spontanea la domanda: come può l’immobilità produrre movimento? Innanzitutto, proprio perché immobile questo motore non può avere nulla di potenziale: esso è atto puro e forma pura; inoltre è sostanziale, perché trova la causa del suo essere solo in se stesso. La potenzialità può essere definita anche come spinta alla prorpia realizzazione: ogni cosa desidera portare a compimento (attualizzare) tutte le proprie potenzialità, poiché il restare in potenza è una mancanza di auto-realizzazione. Il motore immobile è atto puro, quindi attualità totalmente dispiegata; tutte le cose desiderano essere a loro volta un atto totalmente dispiegato, e perciò anelano ad esso senza mai poterlo raggiungere (poiché sono materiali, e quindi per loro stessa natura potenziali). In quanto atto totalmente dispiegato il motore immobile attira verso di sé le sostanze che bramano la sua stessa condizione, ed è causa finale del movimento eterno.
Questo motore è causa finale di tutte le cose, è perfezione in quanto totale dispiegamento della propria attualità, è necessario perché non può essere altro da ciò che è, e non può essere oggetto di esperienza sensibile perché è immateriale; per Aristotele è chiaro che si sta parlando di Dio. Vi è però una distinzione da fare: i movimenti nell’universo sono molti ed ognuno di essi ha il suo motore: ve ne sono ben cinquantacinque. Tuttavia ciò che è unico è il principio primo.
Il motore immobile è vita in quanto ‘dà’ vita ad ogni cosa come causa finale del suo movimento. Esso non è creatore ma è attività (pràxis); e poiché è immateriale ed immobile la sua attività propria è il pensiero. Tuttavia il pensiero deve avere un oggetto, ma poiché il motore immobile è atto totalmente dispiegato (totalità attuale di ogni possibilità) l’oggetto del suo pensiero è esso stesso: la sua attività è pensiero di pensiero (noésis noéseos) – intelligenza ed intelligibile, qui, coincidono.
Ma cosa significa che il principio primo – Dio – pensa se stesso? Dio è pura perfezione, totale dispiegamento di ogni attualità; pensando se stesso Dio pensa ad ogni cosa come attualmente compiuta nel pieno splendore della sua totale auto realizzazione. Il Dio di Aristotele che pensa se stesso è il pensiero del totale e puro compimento del Tutto.