L’arte resta immobile con un dito teso ad indicarci quanto accade essendo replica del reale e fotografia del momento storico. A noi resta, se ne abbiamo ancora voglia, il dura lavoro interpretativo.
Un mese esatto fa mi trovavo tra i corridoi del principale museo di Tallin, il KUMU (Kunstimuuseum), e lì seduta in una stanza quasi vuota del suo terzo piano, ho raccolto la mia anima in uno stato di profonda malinconia.
Lo spazio museale, la cui architettura è notabile per la sua contemporaneità e l’estetica spigolosa, apre le porte ai visitatori ad una prima parte di mostra che raccoglie pittura e scultura estone a cavallo tra il Sette e l’Ottocento; togliendo dal tavolo ogni spocchia tipica dell’italianità che si compiace in se stessa, era evidente come non ci fosse un’influenza diversa da quanto già visto nell’ Europa centrale e, seppur godendo della visita, mi rammaricavo nel vedere delle copie a colori pastello (giacché questi sono i colori più diffusi nell’estetica estone) delle grandi tendenze artistiche che hanno movimentato il Rinascimento centro europeo.
Questo commento dolce amaro deriva dall’ignoranza di chi ha confini più piccoli di quanto crede, come chi scrive questo editoriale, e che inciampa nei limiti delle proprie conoscenze; credevo infatti di poter trovare in quel paese così abbarbicato a nord del mondo una natura artistica di stampo differente che potesse regalarmi una prospettiva diversa e forse scuotermi dal torpore di innumerevoli musei collezionati in anni di visite a città e borghi centro e sud europei.
Senza troppo risentimento, dunque, ho deciso di proseguire la mia visita nel secondo piano del KUMU. E quasi come un preludio a quanto avrei incontrato più su, il Novecento prese piede ed attraverso le opere esposte il visitatore, di cui mi sono assunta la vece, ha potuto raccogliere informazioni storiche, spesso dimenticate dalle altre aree geografiche. Un dato tra i molti di cui si potrebbe non essere a conoscenza è che l’esposizione mi ha permesso di tratteggiare un primato per il Partito Nazionalsocialista Tedesco in Estonia: essa è stata l’unica nazione dove la pulizia etnica avesse spazzato via ogni traccia di giudaismo, essa al tempo si dichiarava con fierezza al mondo: JewishFree.
L’arte di questo piano, pur adattandosi stilisticamente al tirar del vento europeo, mostra al pubblico contenuti politici che finalmente mi dissetavano dall’arsura che mi muoveva; il caso è quello di una nazione di confine tra due grandi potenze storiche e contemporanee: la Russia e l’Europa.
Man mano che la visita continua in questi spazi densi di triangolazioni, a tratti si iniziava a percepire sempre più precise due emozioni che tutti noi sappiamo collocare in quel periodo storico: tensione ed angoscia; tra le bandiere rosse dei cortei dell’occupazione russa e le svastiche tedesche, ben poco del leggiadro Ottocento poteva rimanere nello spirito. Dopo aver appreso le vicissitudini del paese, tra un’occupazione ed un tentativo di libertà, mi sono finalmente portata all’ultimo piano del museo dove una nuova sensazione scivolava fredda tra gli ormai sparuti visitatori. Senza violenza e come se il curatore stesso avesse ben chiaro che a quel punto non era più possibile proteggere il visitatore dalle sorti ben più ampie del suo solo museo: il vuoto di significato aveva spodestato ogni altro sentire non potendo, né in atto né in potenza, riempire lo spazio delle altre emozioni che di necessità rimaneva vuoto.
Tra fotografie raffiguranti il contenuto di frigoriferi, video senza trama e scatoloni contenenti schermi su cui passavano immagini di nudo nemmeno lontanamente erotiche, mi sono dovuta fermare perché non stavo vivendo alcun trasporto bensì un certo distacco ed una forma sottile di noia.
Gli spazi sovrabbondanti dell’inizio, dove paesaggi, ritratti, mitologie e mestieri venivamo a noi come un balsamo erano a quel punto irrecuperabili e mi lasciavano allo spazio misero ed agli zoppicanti tentativi di tener viva l’arte da parte di coloro, gli artisti, che forse faticano a trovare uno spazio reale quando l’arte oggi ha connotazioni profondamente diverse dal passato. Se con Duchamp abbiamo lasciato da parte la manualità dell’artista che era necessariamente anche artigiano, oggi abbiamo lasciato da parte sia la tangibilità che il contenuto dell’arte.
Le opere lassù abbarbicate ci narrano di desolazione, fatica, depressione ed un vuoto senza nemmeno più la volontà di vederlo mistificato né da parte degli artisti né dei curatori che continuano così a fare il loro lavoro di narratori del presente, senza che il mondo li stia ad osservare.
In quello spazio caldo circondato al suo esterno da neve ghiacciata ho accolto i cambiamenti della nostra generazione e seppur questo abbia trascinato in un gorgo la mia anima sono oltremodo contenta che almeno da qualche parte la decadenza dei precedenti modelli si affronti a viso aperto senza che questa venga imbottita di canditi e zucchero a velo. L’arte resta immobile con un dito teso ad indicarci quanto accade essendo replica del reale e fotografia del momento storico. A noi resta, se ne abbiamo ancora voglia, il dura lavoro interpretativo.