Vale poesia
Durante i miei solitari viaggi nomadi intorno al mondo, nonostante la mia forte inclinazione a non condividere i miei pensieri con nessun abitante di questo pianeta e, cosa ben più importante, a non ascoltare le opinioni degli altri – che, sebbene mai richieste, per qualche causa divina vengono indesideratamente sempre trasmesse – mi ritrovai a parlare, tra una serie di sorprese sulla mia nazionalità (gli italiani non sono famosi come backpackers), della poesia.
Ero in Indonesia, nel punto più ad ovest dell’isola di Java, nel parco naturale di UjungKulon e dopo una giornata passata ad attraversare terreni paludosi e farmi strada con il machete in una giungla, spossato dalla fatica e dall’umidità, complice la notte precedente passata all’addiaccio in compagnia di qualche coccodrillo, arrivato nel luogo designato, dopo un breve riposo, ad un centinaio di metri da me vidi due uomini bianchi.
Stupito dalla loro presenza ‒ ero lontano molti chilometri da ogni possibile centro abitato ‒ mi fermai ad osservarli e loro, probabilmente per buona educazione, mi fecero cenno di avvicinarmi.
Ci sedemmo sul suolo, su cui ancora si scorgevano le tracce di un rinoceronte passato una decina di giorni prima, sfilai una kretek da un pacchetto luxury e con un cenno le misi a loro disposizione.
Mi risposero di no: avevano smesso di fumare da poco. In silenzio accesi la mia e rimasi ad ascoltare il crepitio caratteristico.
Mio fratello, un ragazzo indonesiano con cui avevo condiviso un anno di vita, come ogni buon asiatico, non accettò il rifiuto e cercò di sedurre i due malcapitati, i quali, inamovibili, riuscirono a resistergli.
L’argomento della conversazione cambiò, fece qualche giravolta, si piegò su se stesso e piombò su di me la fatidica domanda: «Ma tu, cosa fai nella vita?».
L’opportunità di chiudere la conversazione si era presentata e la tentazione di rispondere: «niente» era forte, ma per esperienza sapevo che dando quella risposta, l’altro avrebbe cercato di svelare il mistero; dopotutto nessuno può ‘non fare nulla’, qualcosa dovrà pur fare.
Allora ero un ingenuo studente di lettere che si dedicava all’esercizio della lettura, della scrittura e del raggiungimento della sbronza perfetta, così risposi sinceramente:
«Scrivo»
«Scrivi? Cosa scrivi?»
«Poesie».
Entusiasti mi chiesero le mie opinioni sull’argomento, mi diedero le loro e mi dissero, quando replicai che non ero sicuro che la mia arte avesse un futuro – ora il dubbio è certezza – , che nel loro stato la poesia è amata, le poesie sono lette ed i poeti ammirati.
Mi sembrò incredibile. Ricordavo la conversazione fatta con una poetessa italiana, eravamo a cena e mi chiese se scrivessi. La guardai impacciato e rispose lei per me, mi disse:«hai la faccia che fa uno che scrive poesie quando qualcuno gli chiede se le scrive, lo so»; poi non aggiunse altro.
Per anni mi chiesi, spinto da letture, pensieri, imprecazioni e qualche fortuita discussione tra le strade del mondo, cosa fosse realmente la poesia e se stesse scomparendo.
poeṡìa s. f. [dal lat. pŏēsis, che è dal gr. ποίησις, der. di ποιέω «fare, produrre»]. – 1. a. L’arte (intesa come abilità e capacità) di produrre composizioni verbali in versi, cioè secondo determinate leggi metriche, o secondo altri tipi di restrizione[…] 2. a. Il carattere di opere o parti di opere ritenute particolarmente ispirate e suggestive[…]. In questa accezione, tratto pertinente non è più il metro o un equivalente del metro, ma l’elevatezza concettuale e formale, al di là di una rigida adesione a schemi formali di metro, ritmo, struttura[…], per cui è giudicata e sentita «poesia» la capacità di esprimere forti sentimenti, di suscitare emozioni, associazioni di immagini, di innalzarsi sui valori correnti per forza creativa e profondità di concetti.
La poesia in principio fu creazione, era considerata un atto divino, poi si irrigidì in forme e contenuti statici durante i secoli – tralasciando la sua dimensione ‘popolare’, ai più sconosciuta –e perse sempre più importanza, fino ad essere emarginata o intorbidita con contenuti che di poesia non hanno niente: anche con l’involuzione mai arriveremmo a chiamare poesia ciò che ora è chiamata poesia.
Come è potuto accadere, mi chiedevo sconfortato osservando i nuovi bestseller italiani e mondiali del genere, eppure la risposta era sempre stata davanti ai miei occhi. Stampata sulla copertina non più illibata, giaceva sempre una parola od una frase che indicava quanto quel libro fosse un successo; la colpa, ho capito, è di Cai Shen – il quale ha prestato il volto, contro sua volontà, all’immagine collettiva del dio del culto del denaro. Così scoraggiato vedevo scomparire autori tra gli scaffali per fare spazio alla poesia di massa o quanto meno a quella che vende.
Poi arrivarono i social: persone più o meno competenti si ribellarono alla poesia ‘bestseller’ e decisero di pubblicare senza criterio o quanto meno con poco criterio i “talenti” contemporanei; inutile dire che queste case editrici, presto seguitissime, in poco tempo sposarono le idee a cui prima si erano ribellati.
Ipocriti direbbe qualcuno, opportunisti sarebbe più preciso: anche se avessero mantenuto i loro ideali, non avrebbero potuto cambiare le cose a fronte del diffuso cattivo gusto poetico dei più.
Così, se prima nel mio amore totalizzante per Calliope cercavo di rendere partecipi altre persone, mi resi conto dell’elitismo della poesia e di come questo cercare di rendere partecipi gli altri abbia portato la poesia sulla soglia del trapasso; smisi di coinvolgere persone che, quando leggevo una poesia mia o di altri, mi guardavano con occhi velati dalla preoccupazione di dover poi dire qualcosa.
La poesia non è semplice, né da scrivere né da comprendere, eppure l’hanno semplificata ad un ‘#ti amo’; in questo gioco al massacro culturale intendere la poesia come pratica elitaria diviene una necessità per poterne proteggere e conservare la vera essenza. D’altronde deriva dalle muse, le divinità elitarie per eccellenza.
«Le Muse hanno un posto altissimo, anzi unico, nella gerarchia divina. Son dette figlie di Zeus, nate da Mnemosyne, la Dea della memoria; ma ciò non è tutto, ché ad esse, e ad esse soltanto, è riservato portare, come il padre stesso degli Dei, l’appellativo di olimpiche, appellativo col quale si solevano onorare sì gli Dei in genere, ma – almeno originariamente – nessun Dio in particolare, fatta appunto eccezione per Zeus e le Muse»[1]
Una sera di qualche hanno fa, mentre elemosinavo del cibo in un posto frequentato da ‘figli dei fiori’ immobilizzati negli anni Sessanta, un australiano alticcio posò la testa sulla mia spalla e iniziò a raccontarmi la storia della sua vita; mentre biascicava, ritmava le sue parole trangugiando del whisky di pessima qualità da una fiaschetta che aveva con sé.
Aveva fatto studi letterari, e dopo avergli confessato che anch’io avevo trascorsi da studente di letteratura, saltò su una sedia ed iniziò a recitare una poesia.
Turning and turning in the widening gyre
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all conviction, while the worst
Are full of passionate intensity.
Surely some revelation is at hand;
Surely the Second Coming is at hand.
The Second Coming! Hardly are those words out
When a vast image out of Spiritus Mundi
Troubles my sight: somewhere in sands of the desert
A shape with lion body and the head of a man,
A gaze blank and pitiless as the sun,
Is moving its slow thighs, while all about it
Reel shadows of the indignant desert birds.
The darkness drops again; but now I know
That twenty centuries of stony sleep
Were vexed to nightmare by a rocking cradle,
And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?
Scese, si sedette e riappoggiò il capo sulla mia spalla, trangugiò un abbondate sorso di alcool ed iniziò a piangere.
Mi ritrovavo solo, in uno stato asiatico, con un australiano ubriaco che mi piangeva addosso dopo aver declamato una poesia di uno dei miei poeti preferiti. In silenzio gli porsi una sigaretta, dopo averla fumata gli spostai la testa, lo guardai e gli dissi: «I know» e me ne andai senza voltarmi indietro.
Non avevamo bisogno di nessun’altra parola, la poesia ci aveva fatto conoscere, ci aveva uniti per un istante e poi ci aveva abbandonato, così come noi abbandonavamo noi stessi a lei.
Mentre ripenso a quell’episodio gli associo automaticamente il Genji monogatari; nella corte giapponese si comunicava attraverso la poesia per esprimere determinati sentimenti od era il linguaggio proprio di determinate situazioni.
A noi era successa, involontariamente, la stessa cosa.
Mi chiedevo se si potesse salvare la poesia, poi scoprii che c’è ancora qualcuno che la legge, che la scrive; stanno nascosti, timorosi di dare opinioni; in luoghi sicuri e con casualità si incontrano lungo la via riconoscendosi subito.
Poesia gioisci, non sei morta ne morente, ti hanno solo rubato il nome – qualcuno sempre ti difenderà come tu ci hai difesi, mai sarai sola come mai lo siamo stati noi.
Ed ora ambiguamente, nel più bel saluto tra le lingue a me conosciute, io che non sono solo, da te che langui tra le bocche degli amanti, mi congedo.
Vale poesia.
[1] Walter Friedrich Otto, Theophania, Genova, Il Melangolo, 1996, p.48