“Vorrei essere per il cinema quello che Shakespeare fu per il teatro, Marx per la politica e Freud per la psicoanalisi: uno dopo il quale nulla è più come prima”. Scriveva così, in bilico tra utopia e realtà, una delle manifestazioni più prodigiose della storia del cinema. A quindicianni, Rainer Werner Fassbinder (1945 – 1982), si dichiarò omossessuale, abbandonando in seguito la scuola. Ancora giovanissimo, a diciassette, scriverà quarantacinque poesie e quattro racconti brevi, da regalare alla madre nel Natale del 1962. Le tematiche sono già quelle della sua vita: l’identità intima e sociale, la passione per il racconto, il desiderio e soprattutto l’amore, trovato o perduto, che è principio motore di ogni cosa.
Le svilupperà poi pienamente, colto da una voracità creativa (ed esistenziale) senza precedenti, negli anni a venire attraverso il cinema. Regista radicale e sperimentale, outsider del Nuovo Cinema Tedesco (Werner Herzog e Wim Wenders gli altri esponenti di spicco), teatrante geniale, attore dal carisma brutale, sceneggiatore precocissimo ma anche direttore della fotografia, montatore, produttore, compositore e scrittore. Esordisce nel 1969 con L’amore è più freddo della morte, presentato al Festival di Berlino. E nei tredici anni successivi dirigerà oltre 40 film, 24 opere teatrali e due miniserie TV.
Fassbinder voleva scrivere un pezzo indimenticabile di storia del cinema.
Combinando linguaggio formale e modalità narrative dei melodrammi e dei film gangster hollywoodiani, si confronta con il miracolo economico e l’ipocrisia morale della società tedesca. Tra i suoi capolavori il metacinematografico Attenzione alla puttana santa (ovvero la cinepresa; 1971), presenza divina e perversa del set; il melodramma teatrale, fascinoso e perfetto Le lacrime amare di Petra von Kant (1972); la miniserie di fantascienza dai contorni metafisici e godardiani Il mondo sul filo (1973); la reinterpretazione libera e commovente di Secondo amore di Douglas Sirk con La paura mangia l’anima (1974). L’esplorazione del tabù del desiderio omosessuale e dei conflitti di classe nel fenomenale Il diritto del più forte (1975). Il sinuoso e crudelmente surreale Despair; la folgorante, magnifica meditazione sul suicidio Un anno con 13 lune e il conturbante, esplosivo ritratto del dopoguerra Il matrimonio di Maria Braun (tutti e tre dello stesso anno, 1978). Coinvolgerà sistematicamente nei suoi film amici, amanti (donne e uomini) ed ex amanti. Inventerà delle star: da Hanna Schygulla (la musa prediletta), Margit Carstensen e Irm Hermann a Volker Spengler, Gottfried John e Günter Lamprecht. In televisione porta la sua opera più spregiudicata e sperimentale: Berlin Alexanderplatz (1980). Nel contrasto tra il bianco abbagliante di Veronika Voss e la calda overdose pittorica di Querelle, i due film che chiudono la sua parabola artistica e insieme la sua esistenza, affiora un universo di sogni, ambizioni, realtà. Per mantenere il passo del suo delirio creativo mischiò una stupefacente disciplina lavorativa a dosi copiose di alcool e droghe. Nel maggio 1982 partecipò al documentario Chambre 666, diretto da Wim Wenders, assieme ad altri registi (tra gli altri Antonioni, Godard e Spielberg), sul tema Dove andrà a finire il cinema?. Sarà l’ultima testimonianza artistica di Rainer Werner Fassbinder che, un mese dopo, il 10 giugno 1982, morì per overdose da cocaina aggravata da barbiturici nella sua casa di Monaco, a 37 anni. In questo video-saggio viene messa in risalto una tematica apparentemente meno centrale nel mondo Fassbinderiamo (ricoscibile soprattutto in un linguaggio malinconico venato di aggressività) ma in realtá spesso presente, quella del romanticismo. Inserito però all’interno di una architettura melodrammatica complessa e sovente anarchica. Una citazione del filosofo Umberto Galimberti (suddivisa in diversi frammenti) accompagna le immagini del regista tedesco dall’inizio alla fine, legate alle note della Traviata di Giuseppe Verdi. Fassbinder voleva scrivere un pezzo indimenticabile di storia del cinema.
E ci è riuscito.