In questo senso Hamas e il governo d’Israele appaiono nemesi intimamente connesse l’una all’altra per poter sopravvivere e detenere il consenso a scapito di unione, coesione e pace.
Il 10 maggio scorso il gruppo politico e paramilitare palestinese Hamas ha sferrato un attacco missilistico contro Israele colpendo obiettivi sensibili a Gerusalemme e imponendo l’immediata evacuazione dei fedeli ebraici al Muro del Pianto. Le motivazioni dell’attacco sono legate all’intensificazione delle politiche espansionistiche di Israele degli ultimi mesi, che, sotto il controllo del leader Benjamin Netanyahu, ha di recente occupato il quartiere palestinese di Sheikh Jarrah – situato nella Gerusalemme Est – distruggendo diversi stabili e costringendo delle famiglie palestinesi ad abbandonare le loro abitazioni.
Il governo israeliano aveva inoltre recentemente approvato rappresaglie da parte della polizia contro i palestinesi presso il Monte del Tempio, il sito religioso situato nella vecchia Gerusalemme dominato da 3 imponenti edifici di interesse storico-religioso tra cui la Moschea di al-Aqsa, provocando il ferimento di almeno 300 palestinesi. Nei giorni successivi si è verificato uno scambio di fuoco incrociato: Israele ha risposto all’attacco di Hamas bombardando la Striscia di Gaza, mentre si difendeva dall’attacco missilistico nemico attraverso Iron Dome, il sistema d’arma mobile per la difesa antimissile israeliana. In tutto sono stati colpiti 6mila obiettivi sensibili palestinesi, tra cui un centro di intelligence, l’unico laboratorio per tamponi Covid19 nonché il palazzo sede della testata giornalistica Al-Jazeera e dell’agenzia Associated Press. Tra i morti figurano anche dei bambini che, stando ai dati del Ministero della sanità di Hamas, ammontano a 65, oltre a 39 donne e 17 anziani, per un dato totale di 230 vittime aggiornato al 20 maggio scorso.
La storia. L’ostilità tra israeliani e palestinesi trova la sua origine in seguito alla fondazione unilaterale dello Stato di Israele nel 1948 su mandato britannico e col placet delle Nazioni Unite. I membri del patto atlantico, infatti, reputarono doveroso risarcire gli ebrei per l’orrore occorso durante l’Olocausto attraverso la concessione della tanto attesa Terra Promessa, la terra che da sempre avevano desiderato ma che non possedevano più fin dalla istruzione del Tempio nel 70 d.C.
Ciò fu ottenuto con l’approvazione della risoluzione 181 da parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite con la quale si divideva la Terra Santa – Eretz Ysrael per gli ebrei o Palestina per gli arabi – in 2 Stati: Israele e Palestina. In quella sede agli arabi non fu chiaro perché al 37% della popolazione ebrea fosse stato concesso il 55% della terra e i delegati arabi affermarono fin da subito che qualsiasi sforzo per attuare la risoluzione avrebbe portato alla guerra. Dal lato opposto la stessa risoluzione provocò lo slancio dei sionisti per accaparrarsi più terra possibile e per espellere il maggior numero possibile di palestinesi; seguirono distruzioni di interi villaggi ed espulsioni di massa: era l’inizio silenzioso della Nakba, la catastrofe come fu rinominata dagli arabi, ossia l’esodo della popolazione araba palestinese durante la guerra civile del 1947-1948. Israele si dichiarò indipendente il 14 maggio 1948 e a nulla servirono gli sforzi della Lega Araba per assoggettarlo al suo controllo. Successivamente oltre 750 mila palestinesi furono espulsi dalle terre diventate parte dello stato ebraico e reinsediati in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Ripercorrendo la storia è facile comprendere le ragioni di uno scontro tanto feroce durato per decadi e che trae origine dalla contesa territoriale seguita alla risoluzione 181 dell’ONU, che non riuscì ad accomodare in maniera pacifica le tensioni tra i due popoli ma anzi le esacerbò, costringendo un popolo ad abbandonare la propria casa, per far spazio – letteralmente – ad un altro popolo che concentrava su di sé il senso di colpa internazionale.
Oggi. Il 13 maggio scorso Israele ha riunito le truppe di terra per prepararsi ad un’invasione, mentre Hamas ha lanciato un numero approssimativo di 1.750 razzi di cui il 90% è stato però intercettato. Nel frattempo, nella Striscia di Gaza la situazione peggiora di giorno in giorno; secondo l’Ong Oxfam 450.000 civili sono oramai ridotti allo stremo a causa della mancanza di cibo, acqua pulita e servizi igienici. Grazie alle forti pressioni internazionali e allo sforzo di mediazione condotto dall’Egitto per mezzo dell’inviato dell’ONU Tom Wennesland, il 20 maggio scorso si è giunti ad una tregua e Israele ha annunciato il cessate il fuoco su Gaza.
“Quando alla fine di questa nuova escalation verrà dichiarato un cessate il fuoco, usciremo per strada e inizieremo a ricostruire dalle macerie, con la sola prospettiva di aspettare una nuova ondata di bombardamenti che distruggerà di nuovo, quanto abbiamo appena ricostruito” denuncia Laila Barhoum, policy advisor di Oxfam a Gaza, in difesa degli oltre 2 milioni di palestinesi lì confinati.
Israele non arretra e nonostante l’ufficiale focus strategico sia la deterrenza, sul tavolo rimane ancora il tema della riconquista di Gaza, luogo chiave di un conflitto decennale il cui assedio dura da 14 anni.
Alla luce della tensione in essere la tregua appare flebile come una fioca fiamma al vento; il mondo osserva con occhio amareggiato il protrarsi delle ostilità fra israeliani e palestinesi, amareggiato perché stanco, perché incapace di prendere una posizione risolutiva a causa degli interessi economici e geopolitici in gioco, e perché consapevole che la complessità che si cela dietro gli scontri ha radici profonde nella storia dei popoli e nella memoria delle famiglie.
Gli interessi politici dietro lo scontro. A parere del giornalista statunitense Thomas Friedman, profondo conoscitore del medio-oriente e vincitore di 3 premi Pulitzer, l’improvvisa esplosione di violenza dopo anni di quiete non sarebbe casuale ma fisiologica conseguenza delle politiche interne palestinesi ed israeliane. Secondo Friedman, infatti, Netanyahu e Hamas avrebbero sfruttato e alimentato il risentimento della popolazione per impedire che nascesse un governo di unità nazionale il Israele – che avrebbe potuto riunire ebrei israeliani e musulmani israeliani.
Si tratta del partito arabo israeliano Lista Araba Unita, altresì detto Raam, guidato da Mansour Abbas che lo scorso gennaio aveva conquistato 4 seggi alla Knesset, il parlamento monocamerale israeliano.
In questo senso la prospettiva di un governo arabo alla guida di Israele non incontrava l’approvazione né del leader israeliano né di Hamas e pare plausibile ritenere che i 2, pur in assenza di dialogo, avrebbero trovato un punto d’incontro nella riapertura delle ostilità per legittimarsi vicendevolmente agli occhi del proprio elettorato. Entrambi, secondo Friedman, mantengono il potere cavalcando l’animosità del popolo nei confronti dell’altro e lo fanno ogni qual volta il loro potere politico è minacciato.
Anche la ricercatrice Ispi Annalisa Perteghella appoggia l’analisi di Friedman, sostenendo che i due abbiano bisogno reciproco l’uno dell’altro per poter detenere il potere: da una parte ad Hamas serve un Israele maligno per veicolare il sentimento d’odio legittimandosi presso i palestinesi, dall’altra ad Israele serve Hamas in posizione di forza per sostenere di non poter negoziare con una formazione di terroristi, disimpegnandosi di conseguenza dal processo di pacificazione. In questo senso Hamas e il governo d’Israele appaiono nemesi intimamente connesse l’una all’altra per poter sopravvivere e detenere il consenso a scapito di unione, coesione e pace.
Posto che esistono tesi avvalorate come quella appena espressa che suggeriscono l’idea che lo scontro sia voluto dagli stessi attori in campo come strumento di legittimazione e mantenimento della propria autorità, si fa ancora più evidente una certa riluttanza da parte della comunità internazionale nel volere – o almeno cercare di potere – agire più incisivamente nel mettere un punto ad una lite annosa e logorante come questa.
Mentre osserviamo il dito puntato, ci stiamo forse dimenticando di guardare la luna? Mentre noi forse facciamo questo, uomini e donne con pulsioni di più che umane, simili nel desiderio di proteggere la sacralità della propria verità ma antagonisti perché indossano una divisa di un altro colore, continuano a combattere; e lo fanno per un credo, per un fazzoletto di terra, per la propria famiglia o per l’onore, stratificando i più bassi istinti e le più alte aspirazioni nello scorrere degli anni, tramandando perdono o vendetta, paura o coraggio, di generazione in generazione.