Il governo americano contro Google

Il pluri-multato Big-G rimane nel mirino dell’antitrust suscitando riflessioni oscillanti tra la tutela della concorrenza del’accanimento contro l’impresa efficiente.

Sara Simon
Attualità

Tra gli eventi giuridici attuali più interessanti vi è sicuramente la causa aperta lo scorso ottobre dal  Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti contro Alphabet, l’azienda che controlla Google. Nello specifico, il governo americano avrebbe accusato Google di fare concorrenza sleale per non perdere il suo monopolio nel campo dei motori di ricerca. Si potrebbero fare interessanti riflessioni sul rapporto tra monopolio commerciale e libero mercato, soprattutto rispetto a questo caso giuridico, ma innanzitutto è bene dare al lettore una panoramica degli eventi occorsi finora, per capire quali siano le posizioni dell’accusa e della difesa.

Quanto emerge dalle indagini degli investigatori federali è che ogni anno Alphabet verserebbe tra gli 8 e i 12 miliardi di dollari ad Apple per assicurarsi che Google rimanga il motore di ricerca predefinito su I-phone. Questi dispositivi, secondo le stime del governo americano,rappresentano quasi il 50% delle ricerche compiute attraverso Google, mentre la restante parte sarebbe costituita da ricerche effettuate su telefoni Android. Si stima inoltre che  complessivamente questo web browser copra il 90% delle ricerche sul web negli Stati Uniti, con guadagni annuali nell’ordine di miliardi di dollari ottenuti grazie alle inserzioni pubblicitarie presenti nelle pagine dei risultati.
Alphabet, naturalmente, si è difesa dalle accuse del Dipartimento di Giustizia sostenendo che gli accordi in questione esistano, ma siano dal loro punto di vista legittimi in quanto le persone decidono liberamente di avvalersi del loro motore di ricerca, senza esserne obbligate.

In generale gli accordi antitrust da un lato vietano gli accordi e le pratiche restrittive della concorrenza, dall’altro limitano la concentrazione del potere economico e ne perseguono gli abusi resi possibili dalla formazione di posizioni di monopolio.

A ben vedere, ciò è senza dubbio vero in quanto è innegabile che l’utente medio digitale, messo di fronte ad una scelta, scelga aprioristicamente Google, sinonimo nell’immaginario collettivo di miglior qualità e completezza di risultato nell’ambito della ricerca online. Eppure, è proprio in tale assenza di scelta, dettata dalla consapevolezza che non esistano competitor, che risiede il problema dell’economia digitale moderna in quanto Google, cosi come Amazon nel settore e-commerce, per citare un ulteriore esempio, essendo colossi nel proprio settore non lasciano spazio alle aziende concorrenti. Da tempo infatti gli esperti di antitrust sostengono che i prodotti delle principali aziende di tecnologia statunitensi, tra cui anche Facebook, abbiano raggiunto una tale pervasività da rappresentare di fatto un monopolio e in questo orizzonte di pensiero il caso in questione risulta particolarmente rilevante, perché riporta all’attenzione della comunità globale il delicato e sottile equilibrio che sottende il mondo del libero mercato, minacciato per sua stessa natura dalla nascita al suo interno di possibili monopoli.

Essendo un colosso globale, tuttavia, Google non ha affrontato cause antitrust unicamente in patria, ma anche nel nostro continente dove l’azienda è stata multata dalla Commissione Europea sempre per tematiche inerenti alla concorrenza, per una cifra complessiva di 8.2 miliardi di euro ‒ l’ultima volta nel marzo 2019, con un’ammenda di 1,49 miliardi. Al centro della polemica, in questo caso, era il servizio AdSense e l’abuso di posizione dominante, con la quale avrebbe imposto clausole restrittive nei contratti con i siti di terze parti per prevenire la pubblicazione di annunci di concorrenti del motore di ricerca. Nel luglio 2018 invece era stata comminata una multa di 4,34 miliardi di euro dall’antitrust europea per abuso di posizione dominante nei sistemi operativi per telefoni cellulari. L’accusa sosteneva che Google avrebbe imposto Android ai dispositivi, garantendosi una posizione privilegiata anche nel funzionamento delle sue applicazioni contro quelle di società rivali. Ancor prima, nel 2017,  sempre l’Unione europea aveva multato Google per 2,42 miliardi di euro per manipolazione dei risultati di ricerca riguardo al suo servizio Google Shopping.

Sotto il profilo giuridico, sanzionare tali comportamenti lesivi della libera concorrenza è stato possibile grazie alle cosiddette leggi antitrust. Il legislatore europeo infatti ha istituito una disciplina di limitazioni della libera concorrenza e degli atti di concorrenza sleale, con la funzione di regolare i rapporti tra imprenditori mantenendo saldo il principio della libera iniziativa economica privata nel rispetto dell’altrui libertà. Tale disciplina tuttavia non prende in considerazione gli effetti che accordi e comportamenti degli imprenditori possono avere sulla funzionalità del mercato. A tale obiettivo è invece indirizzata, per l’appunto, la normativa antitrust, ovvero quel complesso di norme che l’autorità pubblica pone a tutela della concorrenza come contesto ideale della libertà di iniziativa economica. In generale gli accordi antitrust da un lato vietano gli accordi e le pratiche restrittive della concorrenza, dall’altro limitano la concentrazione del potere economico e ne perseguono gli abusi resi possibili dalla formazione di posizioni di monopolio. Nell’Unione Europea le norme a tutela della concorrenza sono contenute nel TFUE (trattato sul funzionamento dell’Unione europea), e mirano ad impedire che gli Stati membri mettano in atto politiche di sostegno delle imprese nazionali fino ad alterare i meccanismi della concorrenza nell’ambito del mercato comune.
A ben vedere, sebbene anche le cause europee contro Google vantino una discreta rilevanza sotto il profilo giuridico, gli esperti ritengono che quella americana di quest’anno sarà la più rilevante iniziativa giudiziaria decisa da un governo nei confronti di una grande azienda del settore tecnologico negli ultimi decenni.

A latere della problematica giuridica ve nè anche una più ‘filosofica’: se il campo dei risultati di una libera ricerca sul web è subordinato alle scelte degli algoritmi di un’azienda privata, è ancora possibile parlare di vera libertà? Ossia, se i criteri di apparizione dei risultati sono scelti aprioristicamente dal gestore del motore di ricerca, è teoricamente e praticamente possibile che essi siano orientati in modi specifici a prescindere dai reali desideri dei clienti. In altre parole, chi sceglie quali risultati appaiano in modo privilegiato rispetto alle ricerche in qualche modo orienta le decisioni stesse, perché presenta in modo arbitrario le varie possibilità di scelta. In questo modo il web, che rappresenta una delle manifestazioni di massima libertà individuale degli individui si rivelerebbe invece limitato e limitante.

Eppure, sebbene dipinti in queste circostanze come i cattivi della storia, bisogna riconoscere che i colossi del web hanno acquisito individualmente e meritoriamente la supremazia nel loro campo, creando il loro bacino d’utenza nel tempo e lavorando per primeggiare tra i competitor; il che significa anche essere riusciti a fornire ai propri clienti le migliori condizioni di mercato ed il miglior servizio per un dato prodotto in un preciso periodo storico. Ad onor del vero bisogna anche riconoscere che le aziende che lavorano nel settore online sono state capaci, attraverso le proprie politiche imprenditoriali vincenti e lungimiranti, non solo di crescere fino ad affermarsi come leader nella propria sfera di competenza, ma anche di allargare il campo da gioco stesso su cui operano. Ad oggi infatti è anche grazie a questi colossi se il mondo dell’internet risulta essere pieno di inesplorate e nuovissime possibilità e sotto questa prospettiva appare sbagliato giudicare negativamente un’azienda leader in costante sviluppo, in quanto è ragionevole credere che la stessa si percepisca piuttosto come un ente in diritto di poter crescere e saturare quei nuovi spazi che si vengono via via a creare. Da ultimo va considerato che la domanda nel mondo online non è stabile né prevedibile, e la contingente emergenza pandemica ha contribuito ad amplificarla notevolmente.
In questa prospettiva non risultano fuori luogo le affermazioni di chi crede che le leggi antitrust ottengano unicamente l’imposizione di una continua e capricciosa persecuzione dell’impresa efficiente, imposizione che tuttavia si rende necessaria, a parere di chi scrive, non solo per la tutela dalle derive monopolistiche del presente, ma anche e soprattutto per non uccidere in culla i progetti potenzialmente anche maggiormente performanti del futuro.

[1] L’enorme causa del governo americano contro Google, in Il Post, https://www.ilpost.it/2020/10/21/causa-google-antitrust-governo-stati-uniti/

[2] Daniele Monaco, Tutte le multe che Google ha pagato in Europa, in Wired.it, https://www.wired.it/economia/business/2019/09/13/google-multe-europa/?refresh_ce=

[3] Gli USA fanno causa a Google?”, Breaking Italy, https://www.youtube.com/watch?v=NR9iQ6foSWA&t=140s

[4] Murray N. Rothbard, Potere e Mercato: Lo Stato e l’economia.

[5] “Diritto commerciale v.l. 11: la disciplina della concorrenza e la normativa antitrust”, Studio legale Avv. Davide Tutino, https://www.youtube.com/watch?v=GVhKdvaQQDs&t=583s

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