Giovanni Bocaccio – Certaldo 1313 – è noto per essere l’autore del Decameron, opera da tutti noi studiata, a volte con poco interesse, alle scuole superiori. Ma ad egli non dobbiamo solo questa grande opera della letteratura italiana; è ricordato anche per avere aiutato a trasmettere la Comedìa di Dante Alighieri e per averle dato il suo iconico titolo con il quale ancora oggi viene erroneamente chiamata: Divina Commedia.
Boccaccio ebbe una formazione sostanzialmente da autodidatta: conosceva il latino e qualcosa del greco ‒ sconosciuto nella penisola durante il Medioevo e riscoperto solo alla caduta di Costantinopoli. Grazie al soggiorno a Napoli e alla sua frequentazione di Montecassino ‒ monastero che come molti altri era un centro culturale fondamentale in epoca medievale ‒ entrò in contatto con molteplici opere latine che studiò secondo la prospettiva culturale cristiana. Fu l’incontro con Petrarca e l’avvio della loro corrispondenza epistolare che portò Boccaccio a rileggere i testi classici in chiave umanistica.
Non può fuggire e solo la morte lo aspetta
Queste premesse sono necessarie per inquadrare una sua opera considerata secondaria, me che a parere di chi scrive dovrebbe essere ricordata: il Filostrato ossia ‘vinto d’amore’[1] (Filos+Stratos). L’argomento è la guerra di Troia, ma riletto nell’ottica dell’amor cortese: si narra la storia d’amore tra Troiolo, uno dei figli di Priamo, e Criseida, figlia di Crise. Il testo è strutturato secondo la canzone La dolce vista e ‘l bel guardo soave di Cino da Pistoia: amore, distacco e morte. Troiolo dopo aver conosciuto l’amore ‒ secondo le regole del De Amore di Andrea Capellano ‒ e dopo aver attraversato i suoi cinque gradi (visione, locutio, il tocco delle mani, il bacio e il congiungimento carnale), viene abbandonato dalla sua amata. In seguito ad uno scambio di prigionieri Criseida si ritrova nell’accampamento greco e prima di separarsi lei promette a Troiolo che si sarebbero rivisti dopo dieci giorni. Tuttavia lei trova in Diomede un amore nuovo e più sicuro e Troiolo scopre solo in modo casuale il tradimento dell’amata. Da questo punto in poi il poema narra le vicende della guerra fino alla morte di Troiolo per mano di Achille.
È Ovidio la principale fonte latina d’ispirazione per il Boccaccio del Filostrato, e difatti già nel proemio scrive:
Omnia sunt hominum tenui pendentia filo et subito casu quae valuere ruunt[2]
Ritroviamo qui la figura dell’Ovidio ‘cogitabondo’, che viene scelta per disporre il lettore allo svolgimento della vicenda di Troiolo. Sempre dell’autore latino Boccaccio riprende anche i Remedia Amoris ‒ un trattato anti erotico in appendice all’Ars Amandi ‒ che insegna come dimenticare la fanciulla amata; tuttavia Boccaccio non si rifà a questo tema specifico dei Remedia, ma li utilizza per una sorta di ‘sintomatologia’ dell’amore.
È interessante notare come nella cornice di quest’opera Boccaccio stesso dichiari di ritrovarsi in una simile situazione; parla di se stesso e di come, dopo aver assaporato l’amore, viene abbandonato: l’autore si trova nel regno di Napoli e la sua amata (Filomena) è stata costretta ad andarsene. Boccaccio, provato dalle sofferenze d’amore, cerca conforto nei testi antichi e proprio qui trova il racconto di Troiolo e Criseida. In questa cornice – a differenza di Cino – egli parla di amore, distacco e speranza:
Tale che la vita mia, la quale ad un sottilissimo filo pendente è da speranza con fatica tenuta in forse[3]
Ma se la sublimazione del ricordo dell’amata può essere un nepente alla pena di Boccaccio, altrettanto non accade per Troilo: egli,vagando per Troia, ricorda. Ricorda la sua amata, ricorda il suo amore nei luoghi che insieme frequentavano, luoghi in cui passa ancora, ma solo.
Quando sol gia per Troia cavalcando, / ciaschedun luogo gli tornava a mente; / de’ quai con seco giva ragionando: / «Quivi rider la vidi lietamente, / quivi la vidi verso me guardando, / quivi mi salutò benignamente, / quivi far festa e quivi star pensosa, / quivi la vidi a’ miei sospir pietosa. / / Colà istava, quand’ella mi prese / con gli occhi belli e vaghi con amore; / colà istava, quand’ella m’accese / con un sospir di maggior fuoco il core; / colà istava, quando condiscese / al mio piacere il donnesco valore; / colà la vidi altera, e là umile / mi si mostrò la mia donna gentile»[4]
In Ovidio si trova un caso simile, ma come già accennato egli propone oltre ad una fenomenologia dei sintomi di questo mal d’amore anche una cura:
I procul, et longas carpere perde vias; / Flebis, et occurent desertae nomen amicae, / Stabit et in media pes tibi saepe via: / Sed quanto minus ire voles, magis ire memento; / Perfer, et invitos currere coge pedes. / Nec pluvias opta, nec te peregrina morentur / Sabbata, nec damnis Allia nota suis. / Nec quot transieris et quot tibi, quaere, supersint / Milia; nec, maneas tu prope, finge moras: / Tempora nec numera, nec crebro respice Romam, / Sed fuge[5]
Ma se anche tali consigli fossero potuti giungere sulle ali del tempo fino a Troiolo, egli non avrebbe potuto seguirli: Troia è cinta d’assedio, c’è una guerra in corso, lui è uno dei figli di Priamo; non può fuggire e solo la morte lo aspetta.
Una breve notazione letteraria, prima di giungere alla conclusione dell’opera. Boccaccio fu il primo scrittore polivalente della penisola italica: si cimentò in diversi generi diventando iconico per alcuni e precursore per altri; in particolare gettò le basi per l’ottava rima, ripresa poi sia da ‘connazionali’ come Ludovico Ariosto e Torquato Tasso che da poeti stranieri come George Gordon Byron, John Keats, John Milton, Percy Bysshe Shelley, William Wordsworth, William Butler Yeats e molti altri. E davvero vi è un respiro molto moderno nel modo in cui egli tratta il tema della tensione d’amore che non trova compimento, nel dolore dell’assenza e nell’ineluttabilità del proprio destino. Si ricordi anche che il Filostrato di Boccaccio è la più antica opera in ottave giunta sino a noi; l’ottava rima probabilmente non fu creata dallo scrittore toscano ma egli la nobilitò ‒ si suppone che precedentemente essa appartenesse alla tradizione orale.
Ora muoviamo gli ultimi passi assieme a Boccaccio, e concludiamo assieme il nostro teste e la sua opera.
Negli ultimi versi egli definisce il suo poemetto una ‘canzon’ che è simile all’epistola; e difatti anch’essa comprende una petitio ‒ volge una richiesta ‒ e un destinatario dal quale egli desidera, e per questo prega gli dei, avere risposta:
Or va’, ch’io priego Apollo che ti presti / tanto di grazia ch’ascoltata sii, / e con risposta lieta a me t’invii.[6]
Anche chi scrive pone in calce una petitio, forse meno profonda ma comunque sentita: non si dimentichi quest’opera di Boccaccio, che merita il suo giusto posto a fianco del Decameron e delle grandi opere della letteratura italiana.
[1] Boccaccio traduce erroneamente il titolo, la traduzione corretta è “l’amante degli eserciti”
[2] Tutte le cose umane sono sospese a un filo sottile, / e le più solide possono precipitare per un caso improvviso.
Ovid, Tristia. Ex Ponto, Loeb Classical Library, 1924, p. 432
[3] G. Boccaccio, Filostrato, Ugo Mursia Editore, 1990, p. 58
[5] Bada a fuggire lontano e seguita ad intraprendere lunghi cammini. Piangerai, ti verra in mente il nome dell’amica abbandonata, e il piede spesso ti si arresterà lungo il cammino. Ma quanto minore voglia avrai di andare, tanto più ricordati di farlo; persisti e forza a correre i piedi riottosi. Non sperare nella pioggia, non ti trattenga il rispetto del sabato sacro agli stranieri, né il giorno dell’Allia, noto per la sua sciagura; non chiederti quante miglia hai già percorso, ma quante te ne restano, e non cercare pretesti per rimanere nelle vicinanze. Non fare il calcolo del tempo, e non voltarti di continuo a riguardare Roma, ma fuggi
Ovidio, Rimedi contro l’amore, Marsilio, p. 86
[6] G. Boccaccio, Filostrato, Ugo Mursia Editore, 1990, p. 425