Nel suo ultimo bollettino di aprile l’Agenzia di rating Fitch ha assegnato al debito pubblico italiano la valutazione BBB- relegandolo ad un’imbarazzante posizione appena al di sopra dei titoli definiti “spazzatura”. Perché questo dovrebbe preoccupare il cittadino italiano medio? Ebbene, il debito pubblico rappresenta il mostruoso ammontare di debiti – per lo più costituito da interessi sul debito stesso – che impedisce a chi ci governa di alleggerire il carico fiscale e di conseguenza di aumentare il livello del nostro benessere. In questa sede non indagheremo le ragioni che hanno portato ad un tale livello di indebitamento, ma ci soffermeremo sulla percezione che il cittadino medio ha di tale fenomeno.
A ben vedere infatti ciascun italiano sa di abitare nel Belpaese, l’Italia dell’arte e della cultura, del turismo e della buona cucina, il Paese che ha dato i natali a menti geniali e che può sfoggiare città uniche al mondo. A fronte di ciò, lo stesso cittadino italiano, si sente ripetere quotidianamente i poco confortanti numeri relativi all’ammontare del debito pubblico ed al rapporto di questo col prodotto interno lordo: oggi questo rapporto ha raggiunto il 135%, ciò significa che quanto produce l’Italia in termini di reddito in un anno non sarebbe sufficiente a ripagare il debito, contravvenendo peraltro ai criteri dettati dal trattato di Maastricht che vorrebbero questo rapporto inferiore al 60%.
Esiste e vive infatti in ognuno degli abitanti del Belpaese la radicata ed inestirpabile convinzione di vivere in una delle nazioni più belle al mondo, dotata di capacità, intelligenze e spirito di adattamento tali da poter primeggiare in qualsiasi settore del vivere e del produrre.
Così come l’umidità d’estate crea una discrasia tra temperatura reale e temperatura percepita, parimenti esiste un’umidità nel settore economico che crea una discrasia fra la temperatura reale fornita dagli austeri numeri relativi alle valutazioni delle agenzie, e quella percepita dal cittadino italiano. Non dobbiamo dimenticare infatti che, mentre viene dipinta sul piano internazionale un’Italia in crisi e potenzialmente vicina al default, il tenore di vita all’interno della stessa sembra essere in contraddizione col livello che ci si aspetterebbe da quella rappresentata. Si pensi ad esempio ai fine settimana nei quali, se non ci si premura di prenotare, risulta difficile pensare di poter cenare in qualsiasi ristorante, e lo stesso dicasi per i soggiorni in hotel. Lo stesso fenomeno dell’aumento del credito al consumo testimonia di una popolazione che pur nella contingente mancanza di liquidità è intimamente convinta di vivere in un Paese sicuramente in grado di creare le condizioni per poter ripagare il debito contratto.
Siamo dunque una nazione in crisi popolata di inguaribili ottimisti, o un Paese in buone condizioni economiche vittima di cattive relazioni con le istituzioni finanziarie internazionali? È verosimile pensare che l’Italia sconti l’eccessiva frammentarietà politica degli ultimi decenni in cui non ha saputo proporre dei leader che siano rimasti al potere per un periodo sufficiente a consolidare rapporti e tessere relazioni proficue. Le nostre continue crisi di governo non trovano riscontro in nessuno dei grandi Paesi europei, avendo causato un ricambio troppo frequente di chi è stato alla guida del governo. Facendo un confronto con i principali Paesi europei, facenti parte del G8, è facile notare il dato relativo all’abnorme differenza nel numero dei capi dei rispettivi governi: dal 1974 ad oggi la Germania ha eletto 4 Cancellieri, la Francia 6 Presidenti della Repubblica, il Regno Unito 9 Primi Ministri e l’Italia ben 26 Presidenti del Consiglio dei Ministri. É palese pertanto che qualsiasi interlocutore internazionale trovi maggiore difficoltà ad intessere rapporti istituzionali con l’Italia piuttosto che con gli altri Paesi citati.
La domanda sorge spontaneamente: può questa carenza di interlocuzione aver inficiato o aver influito negativamente sulla nostra immagine – anche e soprattutto economica – internazionale? La risposta pare essere probabilmente positiva, anche se non è sufficiente a spiegare l’entità del dissesto finanziario attuale che non è certamente attribuibile ad un torbido operare delle agenzie di rating. Queste infatti sono degli istituti privati che si occupano di capire quale sia il valore di un titolo – azionario o obbligazionario – emesso da uno Stato, da una banca o da società abilitate all’emissione. Forniscono quindi gli strumenti necessari agli investitori, privati o istituzionali, per valutare la qualità dei titoli che Stati o aziende immettono sul mercato per finanziare le proprie attività produttive.
È facile intuire pertanto che il rating emesso da tali agenzie determina non solo le condizioni di accesso al credito dell’ente valutato, ma anche la vera e propria possibilità di accesso al mercato delle emissioni dei titoli azionari ed obbligazionari. Chiaramente, più il rating si abbassa, più oneroso diventa finanziarsi, perché lo Stato – o l’azienda – deve remunerare l’investitore del maggior “rischio” sostenuto; quest’ultimo, a sua volta, comportando maggiori interessi sul debito contratto, contribuisce ad aumentare la cifra del debito pubblico.
Si evince quindi che le agenzie di rating si limitano a fare una reale fotografia dell’istante finanziario che ritraggono, e probabilmente ciò che non ritraggono, perché non vedono, è quello stesso elemento che fa percepire all’italiano medio un’Italia migliore di quella che viene dipinta. Ed è certamente qualcosa che non si trova nei numeri o nei grafici di bilancio, è qualcosa che esula dai pragmatici calcoli che conducono ad asettiche valutazioni di risultati ottenuti e di rendicontazioni contabili. Esiste e vive infatti in ognuno degli abitanti del Belpaese la radicata ed inestirpabile convinzione di vivere in una delle nazioni più belle al mondo, dotata di capacità, intelligenze e spirito di adattamento tali da poter primeggiare in qualsiasi settore del vivere e del produrre; un Paese che si distingue ovunque per i propri livelli di civiltà, di libertà, di democrazia, in cui ogni singolo individuo è libero di pensare e manifestare il proprio dissenso così come di partecipare attivamente e civilisticamente alla vita della propria comunità. Disponiamo di un “humus” sociale in cui il singolo è stimolato a mettere a frutto e far crescere le proprie potenzialità, magari dovendo superare un percorso irto di ostacoli, ma sicuramente non ostacolato da sistemi religiosi prevaricanti o da apparati governativi repressivi.
Questo l’Italia lo ha già vissuto e ne ha fatto tesoro, sviluppando una sensibilità che oggi impedisce sul nascere qualsiasi tentativo palese di repressione delle proprie libertà.
In definitiva, forse anche per tutte queste ragioni, l’italiano medio ha una percezione del proprio status sostanzialmente differente da quello a cui il nostro mostruoso debito pubblico vorrebbe relegarlo.
Il mostro però innegabilmente c’è, e con la sua ingombrante presenza, se non verrà ridimensionata, rischia di vanificare questo orgoglioso senso di appartenenza che costituisce il patrimonio più prezioso e che nessuna agenzia di rating può codificare ed inserire nei propri criteri di valutazione.
[1] Flavia Provenzani, Agenzie di rating: cosa sono e perché hanno tanta importanza, in Money.it, reperibile al sito https://www.money.it/Agenzie-di-rating-cosa-sono-A-cosa.
[2] Trentaquattro anni di rating sull’Italia: il lungo crollo, in True numbers, reperibile al sito https://www.truenumbers.it/rating-italia/.
[3] Il debito pubblico italiano spiegato in 5 punti, in Pictet, reperibile al sito https://www.am.pictet/it/blog/articoli/guida-alla-finanza/il-debito-pubblico-italiano-spiegato-in-cinque-punti#:~:text=Il%20debito%20pubblico%20%C3%A8%20il,Stato%20%C3%A8%20detta%20saldo%20primario.
[4] Bollettini ufficiali Fondo Monetario Internazionale e Sole 24 ore.