Il circolo vizioso dell'identity politics

Marta Bernardi
Attualità

Il mondo sta cadendo a pezzi.

Si salvi chi può.

Il mondo sta cadendo a pezzi. Si salvi chi può.

Guardandosi intorno, ascoltando o leggendo le notizie di ciò che accade nella realtà odierna, un po’ viene da pensarlo. Come se il mondo fosse un altro, immenso Titanic, minuti dopo aver speronato contro non uno ma infiniti iceberg e si sentisse risuonare l’urlo “ABBANDONARE LA NAVE!”. Non è facile dar torto a questa percezione. Non quando i conflitti armati sono sempre più diffusi, e portano con sé il loro bagaglio di persone uccise, mutilate, traumatizzate; e tutto questo sommato ai danni ambientali ed economici che ogni guerra causa. Non quando il nostro pianeta si sta letteralmente cucinando – a fuoco neanche troppo lento – e nulla di veramente concreto viene fatto per evitarlo. Non quando i governi e le élite alla guida di molti Stati del mondo sembrano prendere lezioni dai migliori romanzi di narrativa distopica, spacciandosi al contempo come baluardi di democrazia e virtù. Non quando attivisti e giornalisti continuano ad essere perseguitati ed uccisi. Non quando il divario tra coloro che hanno sempre di più e coloro che hanno sempre di meno si aggrava ogni giorno che passa.

Si potrebbe continuare per pagine con questi ‘non quando’. Sarebbe facile farlo. Del resto, i media campano con le notizie negative: quelle che spaventano, indignano, sconvolgono. Sono loro che vendono disgrazie incollando il lettore allo schermo o alla pagina. Inoltre, è stato dimostrato come le persone con la tendenza a vedere il bicchiere mezzo vuoto finiscano con il ricercare notizie che confermino la loro visione pessimistica delle cose. Di certo la realtà odierna, perennemente connessa con, virtualmente, ogni parte del globo, ne offre di spunti da cui attingere.

Forse è il caso di riflettere su quale effetto abbia questo bombardamento di notizie negative sulle fasce della popolazione che già si sentono deprivate dei propri diritti e che non vedono grandi speranze per il proprio futuro. Su quali conseguenze possano derivare da un’immersione in una visione così nera a coloro che già soffrono fortemente delle diseguaglianze socioeconomiche contemporanee e che molto probabilmente soffriranno del fenomeno della downward mobility, o mobilità verso il basso ‒ quel fenomeno per cui le nuove generazioni non sperimentano un miglior tenore di vita dei loro genitori ma anzi ne vivono uno peggiore. Dunque, la persona vive un deficit, non solo nei confronti dei suoi bisogni e risorse materiali ma anche ad un altro cruciale livello: quello della propria dignità. Quando infatti si vede ripagato il proprio duro lavoro non con un miglioramento del proprio tenore di vita ma con una stasi o, addirittura, con un peggioramento, l’individuo tende a sentirsi offeso nell’intimo. 

Queste esperienze di vita influenzano inevitabilmente l’approccio politico del singolo. Anzi, ad oggi sono proprio le esperienze di vita di ognuno che dettano l’adesione ad una corrente piuttosto che un’altra. A scapito di programmi e ideologie si fa presa sull’identità di ciascuno. Ecco perché si parla di identity politics. Questa transizione coinvolge tanto la destra quanto la sinistra, sebbene venga interpretata e incanalata in maniera differente. La sinistra ha abbracciato l’identity politics quando ha abbandonato le ambizioni di riforme socioeconomiche su larga scala, assimilando il concetto di multiculturalismo ed ergendosi a paladina dei gruppi marginalizzati, riconoscendo come le diverse esperienze di vita di ciascuno debbano essere considerate in maniera apposita. Come evidenziato da Fukuyama, del resto, 

le esperienze di vita di ciascun gruppo identitario variano e spesso necessitano di essere affrontate in modi specifici a quei determinati gruppi. Individui esterni spesso non sono in grado di comprendere i danni causati dalle proprie azioni, come molti uomini hanno realizzato sulla scia delle rivelazioni del movimento #MeToo riguardo molestie e violenze sessuali (Fukuyama, 2018; 8).

Sebbene l’identity politics come riportata sopra non sia di per sé negativa – è anzi una reazione naturale ed inevitabile alle ingiustizie – essa distoglie però l’attenzione della politica dal generare macro-soluzioni alla sempre crescente disparità economica e ineguaglianza sociale mondiale, soprattutto quando le soluzioni che vengono presentate continuano ad essere maggiormente sfruttate dalle fasce più abbienti della popolazione, abbandonando quelle più povere a sé stesse. 

L’apertura della sinistra al multiculturalismo ha contribuito a generare una reazione conservativo-identitaria nella destra, che fa leva sulla percezione di abbandono e invisibilità degli individui facenti parte delle realtà più rurali e delle maggioranze etno-culturali presenti nei vari Stati – quelle maggioranze etniche, religiose, o legate dal medesimo orientamento sessuale. La maggior attenzione ai gruppi precedentemente marginalizzati rende molte di queste persone oltraggiate e furiose, perché alimenta la già presente convinzione di essere stati messi da parte – reazione se non legittima almeno comprensibile da parte di chi si è sempre riconosciuto parte della maggioranza, ossia di coloro che hanno sempre avuto, secondo le leggi democratiche, il diritto di decidere per tutti. Costoro sono dunque maggiormente suscettibili ai discorsi che li dipingono come sempre più diversi, sempre meno rispettati, in un’ottica di noi contro loro. Discorsi nazionalisti sempre più accesi e possibilmente verbalmente violenti, che finiscono col sostenere politici più portati ad aggravare le problematiche sopra ricordate piuttosto che a risolverle, andando di fatto a chiudere il cerchio. Persone che prediligono combustibili fossili ad energie rinnovabili, che sostengono che il riscaldamento globale non esista, che investono nell’acquisto e vendita di armi ed armamenti incuranti di ciò che essi provocheranno. 

Per Fukuyama, il ricorrere all’identity politics è inevitabile nel mondo contemporaneo. Il politologo statunitense suggerisce che l’unico modo per uscire da questo circolo vizioso sia rendere le identità più ampie, legate a degli ideali e dei valori nazionali invece che all’appartenenza etnica, religiosa e legata all’orientamento sessuale di ognuno, che finisce per creare soltanto barriere. Sarebbe anche, secondo lo studioso, l’unico modo per garantire l’assimilazione degli immigrati nel tessuto sociale di ogni nazione, cosa che contribuirebbe di fatto a generare una maggiore ricchezza. Di certo la questione è che qualcosa bisogna fare, perché è necessario superare questa frammentazione che genera solo problematiche. Perché se pure Rose è riuscita a salvarsi e a tornare a New York salendo su quel pezzo di legno, l’opzione di abbandonare la nave noi non ce l’abbiamo.

[1] Fukuyama, F. (2018). Against identity politics: the new tribalism and the crisis of democracy. Foreign Affairs97, 90.

[2]  van der Meer, T. G., &Hameleers, M. (2022). I Knew It, the World is Falling Apart! Combating a Confirmatory Negativity Bias in Audiences’ News Selection Through News Media Literacy Interventions. Digital Journalism10(3), 473-492.

[3]  Snyder, J. (2019). The broken bargain: How nationalism came back. Foreign Affairs98, 54.

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