Nello scorso articolo di attualità de La Livella è stato approfondito il tema del revenge porn in Italia, trattando delle sue vittime e della tutela penalistica che grazie alla recente evoluzione legislativa è stato possibile apprestare nei casi di violenza di questo tipo. Volendo dare continuità alla discussione nell’ottica di far comprendere quanto il mondo digitale possa essere pericoloso se adoperato da persone senza scrupoli, e di come questa possibilità richieda che ci adoperiamo per la tutela delle vittime, è bene approfondire un altro tema che viaggia su un binario parallelo in quanto costituisce ulteriore sede in cui si espletano non solo le vendette a sfondo pornografico, ma anche presunte violenze su minori e stupri legalizzati.
Una delle sedi in questione è Pornhub, la piattaforma del porno che ha fatto dell’upload volontario di contenuti da parte degli utenti il proprio businessmodel, e che è stata portata sotto i riflettori della cronaca mondiale nelle ultime settimane grazie all’articolo “The children of Pornhub” di Nicholas Kristof per il New York Times. L’articolo racconta tante storie, soprattutto di giovani donne, i cui video privati sono stati caricati senza il loro consenso su Pornhub, dove spesso sono rimasti per anni nonostante i vari tentativi di ottenerne la rimozione. In molti casi i video non riguardavano atti sessuali, ma presunti abusi, violenze e stupri. Così facendo, Nicholas Kristof ha raccontato per la prima volta il mondo oscuro della piattaforma del porno, quello che in molti conoscono ma di cui non si parla.
L’epilogo positivo della vicenda non deve impedirci di chiederci: cosa sarebbe accaduto, o continuerebbe ad accadere, se un solerte giornalista non avesse deciso di trattare l’argomento su una testata internazionale?
Sebbene il caos mediatico si sia scatenato solo a fine 2020, i presupposti per l’apertura di questo vaso di Pandora sono plausibilmente da rinvenirsi nel 2018 quando in Florida scomparve una ragazza di 15 anni. La ragazza, allontanatasi da casa dopo un litigio con la madre, fece perdere le sue tracce per un anno e la madre, in seguito, fu contattata da persone che avevano rinvenuto la quindicenne scomparsa in una serie di siti internet per adulti. In base alle ricostruzioni, la ragazza era stata avvicinata e circuita da un uomo trentenne, tale Christopher Jhonson, il quale aveva iniziato a postare su svariate piattaforme di intrattenimento per adulti dei video in cui lui e altri avevano rapporti sessuali con la minorenne, con lo scopo di monetizzare su quei contenuti. Emerse anche come conseguenza di tali atti che la ragazza aveva iniziato una gravidanza e l’uomo l’aveva obbligata ad abortire portandola in una clinica.
La cosa interessante da constatare in questo caso di cronaca americana è che ci furono ripercussioni per l’uomo e per altri che come lui avevano abusato della ragazza, ma non ce ne furono per i siti che avevano ospitato questi video e lucrato su contenuti violenti ai danni della minorenne.
A denunciare per la prima volta la questione su una testata rilevante quale il New York Times è stato per l’appunto Nicholas Kristof, a cui va il merito di aver portato all’attenzione globale un grande problema; fino ad oggi la responsabilità di adire le vie legali per la propria tutela e la giusta sanzione penale conseguente riguardavano solo i singoli soggetti vittime di tali soprusi, i quali, deboli e isolati, avevano voci troppo flebili per poter essere ascoltate, o forse, alla luce di quanto emerso grazie alla summenzionata inchiesta potremmo dire: per voler essere ascoltate? C’è da chiedersi: perché il problema non si pose già nel 2018 quando emerse che una ragazzina minorenne plagiata da un trentenne appariva nei video hard di una piattaforma pubblica? Probabilmente perché in quel caso la comunità giudicante aveva già trovato il proprio capro espiatorio in Christopher Jhonson, e tanto bastava all’uomo comune per sentire che giustizia era stata fatta.
Ed è infatti proprio questo che “The children of Pornhub” cerca di dimostrare: mentre le persone colpevoli di caricamento di contenuti illegali ogni tanto vengono scovate e punite, i siti internet sono riusciti ad evitare sempre ogni tipo di coinvolgimento.
L’articolo del New York Times tuttavia non concerne le strategie industriali del sito, bensì la proliferazione di contenuti pedopornografici e abusi che contiene. Kristof spiega infatti che il sito monetizza stupri su bambini, contenuti di revenge porn, video girati da telecamere nascoste di donne che si fanno la doccia, contenuti razzisti e misogini e video di donne soffocate con buste di plastica.
Questi contenuti rappresentano una minoranza rispetto alla totalità dei video caricati, ma sono comunque tantissimi e vantano una loro fedele nicchia di pubblico. A rendere il quadro generale più complesso, soprattutto in merito al fenomeno pedopornografico, va anche considerato il fatto che spesso è difficile distinguere se il soggetto ripreso abbia 14 o 18 anni, o se i video ritraggano vere violenze o siano piuttosto un film girato da attori consenzienti, pertanto nemmeno Pornhub sa in modo preciso quali e quanti dei suoi contenuti siano illegali.
Inoltre, nonostante ricerche come “stupro” o “minorenne” siano impedite dal motore di ricerca interno, esistono parole chiave alternative che permettono di raggiungere il contenuto illegale che mostra il minorenne abusato sessualmente o, perlomeno, che dice di mostrarlo – in molti casi infatti attori maggiorenni recitano consenzienti inscenando finti abusi.
A ben vedere tuttavia, sebbene la recita di un abuso sia legale, non è possibile negare che la stessa contribuisca a normalizzare la violenza, soprattutto tra gli adolescenti che affidano sempre più la loro educazione sessuale ai siti pornografici, e ciò dovrebbe essere un importante tema di riflessione per chi ha fatto del porno il proprio business, al di là del guadagno e del confine tra legalità e illegalità.
Nel caso di specie, sulle prime Pornhub ha definito l’articolo irresponsabile e totalmente falso, accusando il New York Times di montare ad arte un caso e affermando quanto solerti siano gli operatori del sito nel rimuovere i contenuti illegali. Nonostante quanto asserito dai vertici di Pornhub va comunque tenuto in considerazione un dato importante riguardante i moderatori del sito: questi infatti non solo sembrano essere molto pochi rispetto a quelli impiegati in altre piattaforme social, 80 per l’esattezza – si consideri ad esempio che Facebook ne ha 15mila –, ma gli stessi, secondo quanto riportato da un moderatore intervistato, hanno ricevuto istruzione di approvare quanti più contenuti possibili; secondo l’intervistato ciò avviene non perché i dirigenti di Pornhub siano persone malvagie, quanto perché sarebbero concentrati solamente sul massimizzare i profitti.
La diffusione dell’articolo tuttavia ha costretto anche Mastercard e Visa, le principali piattaforme che permettono transazioni economiche digitali anche sul sito in questione, a prendere posizione su quanto avvenuto. Le aziende hanno avviato delle indagini per verificare se Mindgeek, l’azienda canadese del porno che possiede anche Pornhub oltre a Youporn e Redtube, stia commettendo attività illegali e minacciato di togliere loro il servizio.
A questo punto Pornhub, posto che un’eventuale sospensione delle transazioni attraverso i due circuiti di carte di credito più diffusi al mondo significherebbe una catastrofe finanziaria per l’azienda, ha deciso di modificare radicalmente il funzionamento del sito annunciando una serie di cambiamenti molto importanti: anzitutto soltanto chi avrà un profilo verificato potrà da ora in poi caricare dei video sui loro portali; in secondo luogo i video non saranno più facilmente scaricabili come in precedenza e verrà inoltre istituito un team di controllo e moderazione chiamato red team.
L’epilogo positivo della vicenda non deve impedirci di chiederci: cosa sarebbe accaduto, o continuerebbe ad accadere, se un solerte giornalista non avesse deciso di trattare l’argomento su una testata internazionale? In questo caso, così come in altri del passato – si pensi ad esempio al caso Spotlight che fece emergere la realtà dei preti pedofili di Boston nel 2002 – il ruolo del giornalismo d’inchiesta appare imprescindibile per orientare l’attenzione pubblica su temi specifici e apparentemente sommersi al fine di portare la giustizia più celermente laddove impiegherebbe probabilmente più tempo ad arrivare da sola.
[1] Nicholas Kristof, The children of Pornhub, in New York Times, https://www.nytimes.com/2020/12/04/opinion/sunday/pornhub-rape-trafficking.html
[2] Un articolo del New York Times ha stravolto Pornhub, in Il Post, https://www.ilpost.it/2020/12/10/pornhub-pedopornografia-limitazioni-new-york-times/
[3] “I grandi cambiamenti di Pornhub spiegati: cosa succede?”, Breaking Italy, https://www.youtube.com/watch?v=ix0FEK1VTZE