La prima domanda, più antica di ogni altra, è quella che si rivolge a noi stessi – alla nostra natura. Eppure, essa è tanto aurorale quanto elusa dagli umani, e ben pochi ne acquistano vera coscienza. Questa nostra natura è fisiologicamente egocentrica ma non altrettanto consapevole.
Vi è quindi una necessità: fare spazio fra le cocche dei nostri pensieri, perché un’idea valente non cada in un guazzabuglio degno della Stanza delle Necessità – perduta in un nugolo di ciarpame.
Fare spazio è l’aver possesso della propria mente o, anagogicamente, della propria anima.
Il processo di ordinamento del pensiero si dà come perduto, e non valgono a compierlo né le meditazioni yoga che tutti fingiamo di fare in questa quarantena né la preghiera, alla quale, noi figli della cultura occidentale, non dedichiamo più gran tempo. Gli studi obbligatori si alleggeriscono, si rifugge la noia, e la solitudine dilaga ma non è più il proemio ad una vita in armonia con il Sé.
Un’immagine nuova per questo ‘fare spazio’ è lo schermo del computer ideale: poche cartelle e ben ordinate.
Vi è ora una constatazione: il nostro ‘Io’ lo abbiamo lasciato in altre mani, e così il nostro vivere è in balia di altri attori.
Tutti i geni sono dei mediocri finché non hanno un’illuminazione.
Abbiamo scordato il piacere della libertà, dell’autonomia e dell’autodeterminazione. I nostri corpi appartengono alla medicina, le menti alla terapia, le scelte al marketing e le amicizie ai social.
Siamo terrorizzati dalla sconfitta e dalla fatica e ci rannicchiamo in speranze vane di futuri potenziali che tuttavia, per essere attuati, hanno bisogno di menti coltivate. Nelle aziende non viene valutata la capacità di risollevarsi dalle crisi ma piuttosto quella di agire passivamente e vengono prediletti soggetti funzionali all’ordine piuttosto che menti indipendenti.
Dato tutto questo cosa vi è da imparare? Che la vera libertà è fatta di legami, di lavoro, di passioni e di scelte; e se queste sono le ‘cartelle’ del nostro ‘desktop’, bisogna pian piano allenarci a lasciare tra di esse tanto spazio quanto ne serve per altro: gli imprevisti, le casualità, gli eureka che la mente coltivata produce quando le si dà modo di agire secondo la sua natura. Il cervello è un organo pigro: serve la volontà per tenerlo coltivato, un’iniziale vertigine di slancio per poter godere della fascinazione che esercitano i nostri stessi pensieri, i quali, una volta liberi, reagiscono gli uni agli altri, si armonizzano e si elevano a struttura.
Non c’è bugia storica più grande del mito romantico dell’artista che compie la sua opera d’arte come frutto di un potere magico. I grandi artisti lavorano sodo, studiano costantemente, praticano, sbagliano e riprovano ancora. Tutti i geni sono dei mediocri finché non hanno un’illuminazione – grazie ad un amico per questa bella frase.
Per raggiungerla è necessario salire la scala di Wittgenstein portando sulla spalle le conoscenze integrate e, giunti alla cima, farsi cerchio; bisogna liberarsi dall’ego e dal dogma affinché il pensiero si dia puro e così diventare sfera – pienamente essere.
Solo allora si potrà possedere qualche risposta su chi siamo, e questa consapevolezza individuale potrebbe influire grandemente su che cosa, noi esseri umani, saremo.
La direttrice
Veronica Berenice