“È dolce morire nel mare…”

Jorge Amado, Mar morto

Gabriele Dessin
Letteratura

Una brezza che vaga errabonda spesso si ferma in un luogo e ristagna, come d’incanto. Allora questa terra prescelta si inebria di essa e ne acquisisce tono, sapore e odore. Accade lo stesso nei grandi romanzi e Mar Morto, di Jorge Amado, è uno di essi. Il porto di Bahia è la sua terra e il vento salmastro ‒ suadente ed inquietante ‒ ne impregna ogni pagina.

La notte calò inattesa.
[…]
Gli uomini si guardarono come interrogandosi.
[…]
La notte arrivò quel giorno, senza musiche a salutarla.
[…]
Era una notte diversa e opprimente quella, e gli uomini avevano un’aria inquieta [1].

 Le prime quattro frasi, dei primi quattro capoversi, del primo capitolo – Tempesta. Non vi è un rassicurante prender la mano e accompagnare l’ingenuo lettore nel mondo nuovo che si sta dischiudendo. Questo è il senso di repentino spaesamento, d’improvvisa consapevolezza che coglie l’uomo di terra che si sporga, improvvisamente, dal bordo di una barca verso il mare aperto. La realtà ad un tratto sembra ritrarsi e il mondo inconscio dell’onirico si manifesta con il suo volto ambiguo

Si tratta di una professione di fede nell’inconoscibile, nel mistero che si apre al limitare di una banchina, profondo sotto la chiglia di un saveiro.

Raramente ci si trova così immersi nella realtà e così al di fuori di essa; questo è il racconto di un uomo di terra, che trascrive voci di uomini del mare, e di questo mare parla, del quale né lui, né loro ‒ né noi ‒ potremo mai dire: «questo lo conosco, mi è familiare, e per me non ha segreti».

… Ora io voglio raccontare le storie della riva del porto di Bahia. I vecchi marinai che rammendano vele, i maestri di saveiros, i neri tatuati, i vagabondi, conoscono queste storie e queste canzoni. Io le ho ascoltate nelle notti di luna allo scalo del mercato, nelle fiere, nei piccoli porti del golfo, accanto alle enormi navi svedesi nei ponti di Ilhéus. Il popolo di Iemanjá ha molto da raccontare [2].    

Non si tratta d’altro che di una professione di fede nell’inconoscibile, nel mistero che si apre al limitare di una banchina, profondo sotto la chiglia di un saveiro. Là dove il confine tra mare e terra diventa confuso, anche tra vita e morte è lo stesso. Perché  il mare non è prevedibile, e scivola tra le maglie degli umani progetti. Il marinaio esce al largo, sa come e quando partire dal suo porto, sciogliere le gomene della sua barca alla fonda e navigare sulla baia; ma non sa come, quando e se farà ritorno.

Chi ha già decifrato il mistero del mare? Dal mare vengono la musica, l’amore e la morte. E non è forse sul mare che la luna è più bella? Il mare è incostante. E come lui è la vita degli uomini dei saveiros. Chi di loro ha avuto una morte uguale agli uomini della terra che accarezzano nipoti e riuniscono famiglie nei pranzi e nelle cene? Nessuno di loro va col passo fermo degli uomini della terra. Ciascuno di loro ha qualcosa in fondo al mare: un figlio, un fratello, un braccio, un saveiro che ha fatto naufragio, una vela che il vento della tempesta si è portata via. Ma tuttavia, chi di loro non sa cantare queste canzoni d’amore nelle notti del porto? Chi di loro non sa amare con violenza e dolcezza? Perché ogni volta che cantano è amano può essere l’ultima volta [3].

Non racconteremo qui la storia d’amore di Guma e di Lívia, quella di Francisco e del suo saveiro Valente, di Jacques e Judith, di Esmeralda, Rufino, Maria Clara, Chico Tristeza… non aggiungeremo un’altra voce di uomo di terra sopra queste storie. Parleremo del mare, e della signora di lui e di tutti i marinai. Perché in questa Bahia de Todos os Santos uomini e donne di culture diverse si ritrovano a vivere assieme, ed ognuno di loro porta con sé le credenze delle terre natie. E in questa baia, che per i suoi figli è culla del mondo, il mare è donna, ha una storia di donna e cinque nomi:

Lei è la sirena, la Madre-d’acqua, la signora del mare, Iemanjá, dona Janaína, dona Maria, Inaê, Principessa di Aiocá. Lei domina questi mari, lei adora la luna che viene a guardare nelle notti senza nuvole, lei ama le musiche dei negri. Ogni anno si fa la festa di Iemanjá nel Dique e sul Monte Serrat. Allora la chiamano con tutti i suoi cinque nomi, le danno tutti i suoi titoli, le portano doni, cantano per lei [4].

Iemanjá è il confine sottile tra la ragione e la follia. Essa è il rispetto delle leggi di natura e il capovolgimento delle leggi dell’uomo; è l’ambiguità che non può essere sciolta, l’arma che uccide e risana, il fardello della vita e la gioia della morte. Gli uomini del mare l’amano, perché sanno che essa li amerà quando non faranno ritorno alla riva.

Lei è la Madre-d’acqua, la signora del mare, e per questo tutti gli uomini che vivono sulle onde la temono e la amano. Lei punisce. Lei non si mostra mai agli uomini se non quando muoiono nel mare. Quelli che muoiono nella tempesta sono i suoi preferiti [5]. 

Molti di loro, per vederla, si gettano nelle onde con il sorriso. Essa incarna i loro sogni d’amore, come il calmo abbraccio del mare e la travolgente passione delle sue tempeste; essa “è bionda e ha lunghi capelli e va nuda sotto le onde, vestita solo dei capelli che si vedono quando la luna passa sul mare” [6].

Anche le donne amano Janaína, poiché anch’esse sono donne del mare, ed essa protegge i loro uomini. Ma la temono e quasi la odiano perché sanno che anche lei ama i loro uomini, e in ogni momento potrebbe portarli con sé come amanti, “facendo vela per tutti i porti, spaziando per tutti i mari” [7]; perché esse sono “donne del mare, donne dall’uguale destino: attendere in una notte di tempesta la notizia della morte di un uomo” [8].

Anche Inaê è donna, e qualche vecchio marinaio di Bahia conosce la sua storia; ma la racconta di notte, in un sussurro di voce, poiché è questa storia che accende l’ira di Iemanjá e porta i saveiros al naufragio:

Iemanjá è così terribile perché lei è madre e sposa. Quelle acque nacquero da lei il giorno che suo figlio la possedette. Non sono in molti  nel porto a conoscere la storia di Iemanjá e di Orungã, suo figlio. Ma Anselmo la sa, e anche il vecchio Francisco. Non la raccontano facilmente, perché è questa che fa scatenare la collera di Janaína. Fu per caso che Iemanjá ebbe da Aganju, dio della terraferma, un figlio, Orungã, che divenne dio dell’aria, di tutto quello che sta tra la terra e il cielo. Orungã girò per queste terre, visse in queste arie, ma il suo pensiero non si allontanava dall’immagine della madre, la bella regina delle acque. Lei era la più bella di tutte e tutti i suoi desideri erano rivolti a lei. E un giorno non resistette, la violentò. Iemanjá fuggì e nella fuga i suoi seni si ruppero e così si formarono le acque e anche questa Bahia di Tutti i Santi. E dal suo ventre fecondato dal figlio nacquero i più temuti orixás, quelli che comandano i fulmini, le tempeste e gli uragani. 
Così Iemanjá è madre e sposa. Ama gli uomini del mare come madre finché vivono e soffrono. Ma il giorno in cui muoiono è come se fossero suo figlio Orungã, pieno di desiderio, che cerca il suo corpo [9].

Ora si comprende, alla fine, che l’onda che ci travolge è l’ambiguità stessa del’esistenza. È Questa l’aria, gravida di umori salmastri, che aleggia sul mare dagli incerti confini. Gioia e dolore, vita e morte, amore e stupro, tutto si fonde e capovolge nel suo seno. E ancora a Bahia, quando splende la luna, i capelli di Iemanjá brillano, sulla pelle dell’acqua.

[1] J. Amado, Mar morto, Mondadori, Milano 1998, p. 5

[2] Ivi, p. 2

[3] Ivi, p. 13.

[4] Ivi, p. 65

[5] Ivi, p. 15.

[6] Ivi, p. 16.

[7] Ivi, p. 15.

[8] Ivi, p. 13.

[9] Ivi, p. 69.