Tra le personalità più incisive del secolo scorso, l’uomo che nell’immaginario collettivo incarna più di ogni altro la genialità, l’intelligenza e la curiosità è Albert Einstein. E forse proprio per questo è interessante esplorare le zone d’ombra del suo pensiero. E non mi riferisco soltanto agli aspetti legati alla sua vita privata, come il secondo matrimonio con la cugina o le lettere intimidatorie inviate alla prima moglie in cui venivano elencate le regole a cui si sarebbe dovuta sottoporre (Smetterai di parlare se io ne farò richiesta; rinuncerai a tutte le relazioni personali con me, a meno che non siano strettamente necessarie per ragioni di etichetta e di vita sociale; lascerai immediatamente la mia stanza da letto o il mio studio, senza protestare, quando io ne farò richiesta; etc.). E neppure alle sue valutazioni etiche circa l’energia atomica, che lo portarono a scrivere al presidente Roosevelt in favore dei progetti nucleari che poi si concretizzarono nelle bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki, di cui poi il fisico tedesco disse: “Se avessi saputo ciò che stavano per fare, avrei fatto il calzolaio”. Mi riferisco alle sue vere e proprie convinzioni scientifiche.
Pur essendo entrato nella storia per quella che va sotto il nome di “Teoria della relatività” (teoria che riguarda lo spazio-tempo e la sua connessione con la gravità), Einstein ricevette nel 1921 il premio Nobel per i suoi studi sull’effetto fotoelettrico, tassello fondamentale per la formulazione della meccanica quantistica. Tale effetto permette alla luce di estrarre elettroni da un materiale metallico (come avviene nei pannelli fotovoltaici). Nel formulare la sua teoria, Einstein descrisse la luce non come un’onda, ma come un insieme di pacchetti di energia, di quanti, di particelle (poi chiamate fotoni). È il singolo fotone a colpire un elettrone all’interno del metallo e a trasmettergli la sua energia. E se l’energia trasmessa è sufficiente, l’elettrone può fuoriuscire dal metallo ed essere utilizzato come corrente elettrica.
Lo scontro tra la concezione realista di Einstein, che vede un mondo in cui esiste una verità assoluta e descrivibile, e la concezione di Bohr, per cui la descrizione scientifica della natura non coincide con la natura stessa della realtà.
L’interpretazione einsteiniana della luce, ad ogni modo, non venne accettata universalmente per molti anni. Persino Max Planck -altro gigante della fisica, anche se meno riconosciuto nella cultura popolare- non credeva all’esistenza dei quanti di luce. Eppure era stato proprio Planck, prima ancora di Einstein, a ipotizzare l’esistenza dei quanti di energia, per spiegare un altro fenomeno più complesso (la radiazione da corpo nero), vincendo così il premio Nobel nel 1918. Planck pensava che i quanti non fossero altro che un espediente matematico, utile a realizzare i conti, ma non aderente alla realtà naturale.
Siamo quindi di fronte a due geni indiscussi della fisica, entrambi insigniti del premio Nobel per teorie che stanno alla base della meccanica quantistica, ed entrambi scettici circa l’effettiva veridicità della fisica dei quanti. Questa diffidenza nasce dal cambio di paradigma che la meccanica quantistica comporta nella struttura filosofica della scienza. Si tratta di una rivoluzione radicale, copernicana, per cui crollano molti dei concetti su cui era basata la fisica dell’ottocento. Nuovi concetti così controintuitivi che ancora oggi sono considerati assolutamente impensabili da chiunque non abbia studiato specificatamente il tema.
La teoria dei quanti non descrive più la materia come un insieme di particelle rigide, che occupano un certo volume e con caratteristiche ben definite (posizione, velocità, estensione, etc.). La materia diventa un’onda di probabilità, per cui una particella non ha più una posizione precisa, non ha una velocità univoca, non possiede un’energia ben definita; la particella può trovarsi ovunque, ha una posizione diffusa in tutto lo spazio, può avere molte energie nello stesso momento, possedere contemporaneamente caratteristiche opposte e incompatibili tra loro. Quando poi si effettua una misura sulla particella, per esempio si verifica la sua posizione, allora queste infinite possibilità convergono in una sola; la particella “collassa” in un solo punto dello spazio. Reiterando a più riprese l’esperimento di misura della posizione, la particella collasserà una volta in un punto, un’altra volta in un altro, in base a un calcolo di probabilità. Se la particella fosse un’onda diffusa su tutto lo spazio con eguale probabilità, allora nel misurarne la posizione potremmo scoprire che essa si trova con uguale probabilità tra le nostre mani, sul Sole, su Proxima Centauri, in un’altra galassia, o ovunque ci venga in mente.
Ciò che Einstein contestava della teoria quantistica è proprio la sua natura intrinsecamente probabilistica e non deterministica. Fino ad allora, in fisica, la probabilità era associata a un’incertezza dovuta all’ignoranza, non all’essenza stessa della natura. Se per esempio lanciamo una moneta per aria, abbiamo il 50% di probabilità che esca testa e il 50% di probabilità che esca croce. Ma è una probabilità dovuta all’ignoranza che abbiamo circa la forza applicata durante il lancio, la velocità di rotazione della moneta, la resistenza dell’aria, etc. Se potessimo disporre di tutte queste informazioni, sapremmo prevedere con certezza se il lancio farebbe uscire testa o croce.
In meccanica quantistica la probabilità a cui si fa riferimento è al contrario congenita alla natura stessa: una particella è realmente in posizioni diverse nello stesso istante e in nessun modo sarebbe possibile prevedere con certezza dove la troveremmo se effettuassimo la misura della sua posizione. La natura stessa è incerta e agisce secondo leggi di probabilità. Einstein non riusciva ad accettare che l’incertezza fosse congenita nelle leggi dell’universo, e riassunse il suo scetticismo nella celebre frase “Dio non gioca a dadi con il mondo”.
Eppure la meccanica quantistica, ad oggi, è la teoria fisica che più di ogni altra è stata confermata sistematicamente da ogni esperimento. È il fisico Niels Bohr a spiegare, meglio di ogni altro, perché la perplessità di Einstein sia infondata. Osservare le proprietà della natura, secondo Bohr, significa condurre una qualche sorta di esperimento, di misurazione. Fintanto che non conduciamo una misura, è privo di senso definire come la natura si comporti. In pratica è inutile tentare di interrogarsi sulla struttura del mondo quando esso non è da noi misurato. Qualsiasi struttura matematica che predica i valori corretti di un esperimento è perfettamente valida.
C’è quindi lo scontro tra la concezione realista di Einstein, che vede un mondo in cui esiste una verità assoluta e descrivibile, e la concezione di Bohr, per cui la descrizione scientifica della natura non coincide con la natura stessa della realtà. E questa differenza di pensiero tra Einstein e Bohr si manifesta in un esempio paradigmatico: la relazione dei due fisici con la filosofia orientale.
Nel 1930, a Berlino, avviene un incontro tra Einstein e il poeta/filosofo indiano Rabindranath Tagore (premio Nobel per la letteratura nel 1913). La discussione tra i due verte sull’esistenza di una realtà oggettiva, indipendente dalla mente che la osserva. In un passaggio saliente, Einstein afferma che, anche se non si osserva una stanza, è noto quale sia il comportamento del tavolo al suo interno, il quale continuerà ad esistere, in quanto dire che “il tavolo è lì” è indipendente da noi. Tagore replica che no, l’idea stessa che noi abbiamo del tavolo è un’apparenza prodotta dalla nostra mente e perciò il tavolo non esiste indipendentemente da noi.
Al contrario, Bohr è talmente vicino alle dottrine orientali di dualità e complementarietà degli opposti, che quando nel 1947 fu insignito dell’ordine cavalleresco più importante della Danimcarca, l’ordine dell’Elefante, scelse uno stemma al cui interno è riportato il simbolo dello Yin e Yang, e sopra di esso fece scrivere il motto “Contraria sunt complementa”
Einstein e Bohr, due approcci opposti all’idea di scienza, un desiderio di realismo scientifico contrapposto a un’interpretazione più astratta delle leggi matematiche, la volontà di imporre sulla realtà del mondo il pensiero dell’uomo e l’accettazione che la verità ultima resta inconoscibile.
E in questa disputa filosofica, esiste tuttavia un’altra interpretazione della meccanica quantistica, detta “a molti mondi”. L’ interpretazione a molti mondi è spesso criticata in quanto inverificabile sperimentalmente, ma vale comunque la pena descriverla perché molto suggestiva. Essa prevede che, ad ogni misura effettuata su un sistema, si verifichino contemporaneamente tutte le possibili risposte del sistema, ognuna in un universo differente. Prendiamo l’esempio di un elettrone quantisticamente dislocato contemporaneamente in due punti separati tra loro (punto A e punto B). Quando effettuiamo la misura della posizione dell’elettrone, si generano due universi, uno nel quale l’elettrone collasserà nel punto A e un altro in cui collasserà nel punto B. Noi, a seconda dell’universo in cui ci troviamo, troveremo l’elettrone nel punto A o nel punto B.
Quindi, secondo questa interpretazione, l’universo in cui viviamo non fa altro che sdoppiarsi in molteplici universi ogniqualvolta si misuri o si osservi un fenomeno quantistico. Se poi invece che prendere un sistema a due sole possibilità (A o B), se ne prende uno che abbia infinite possibilità (per esempio un elettrone dislocato contemporaneamente in tutto l’universo), allora dalla misura della sua posizione nasceranno infiniti universi. Dal momento che continuamente, anche senza accorgersene, la natura “misura” se stessa, in ogni istante nascono infiniti universi che si separano tra loro seguendo realtà diverse, come una lotteria in cui tutti vincono, ma ognuno in un mondo diverso.