'Che sia,
quando è'

L'Essere e il principio
più saldo

Thomas Masini
Filosofia

   Con Aristotele – il Filosofo, che fu precettore di Alessandro Magno – assistiamo ad una sistematizzazione generale della filosofia e ad un approfondimento ulteriore della problematica ontologica. Se finora abbiamo ragionato partendo dall’Essere in res, si tratta ora di analizzare la connessione tra quest’ultimo e la razionalità stessa, vale a dire il lògos.

   Nei primissimi capitoli del libro Γ (Gamma) della Metafisica, lo Stagirita espone queste prime considerazioni: appartiene ad un’unica scienza lo studio dell’Essere in quanto Essere e dei suoi attributi, e questa scienza è il campo di studio proprio del filosofo. 

È naturale, perciò, che ad esso competa anche l’indagine intorno agli ‘assiomi’ e alla sostanza, i quali sono propri dell’Essere e pertanto di ogni cosa che è. Tali ‘assiomi’, in quanto riguardano l’universale per eccellenza e la sostanza tutta e la natura di essa, dovranno al pari essere i più universali e veri. Il problema della Verità era già stato analizzato da Aristotele negli Analitici – dove si espone la natura del ‘ragionare’ e si esplicitano le varie forme dei sillogismi e della dimostrazione; è evidente che una conoscenza preliminare di questi possa essere non solo utile ma in certo senso necessaria per la comprensione di quanto si va ad esporre. Ma poiché non è possibile pretendere dal lettore la conoscenza di testi così voluminosi e complessi si cercherà di inserire strada facendo le nozioni fondamentali.

Dal punto di vista della Verità, invece, esso si dimostra innegabile perché qualsiasi negazione sia formulata è auto-negativa.

     Si parta quindi da una citazione aristotelica di fondamentale importanza:

Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i princìpi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza anche colui che possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire quali sono i princìpi più sicuri [τὰς βεβαιοτάτας ἀρχὰς] di tutti gli esseri. Costui è il filosofo. E il principio più sicuro di tutti è quello intorno al quale è impossibile cadere in errore: questo principio deve essere il principio più noto (infatti, tutti cadono in errore circa le cose che non sono note) e deve essere un principio non ipotetico. […] questo principio è il più sicuro di tutti [ὅτι μὲν οὗν βεβαιοτάτε ἡ τοιαύτη ἀρχή]. [Arist. Met. Γ 3, 1005 b 7-20][1]

È necessario stabilire, scrive Aristotele, qual è il principio “intorno al quale è impossibile cadere in errore”, ossia tale che chiunque lo enunci, in qualunque luogo o momento, può essere assolutamente certo di enunciare un principio vero. Questo, inoltre, possiede due proprietà specifiche: è il più noto e non è ipotetico. La prima proprietà vuol significare che benché sia possibile conoscerlo sotto altre formulazioni, o non avervi mai pensato in modo razionale, tuttavia non di meno tutti conoscono ed ‘applicano’ tale principio (e poiché si sta parlando dell’Essere, se ne deduce che anche tutte le cose che sono si adeguano ad esso); la seconda importa che il principio non può essere un’ipotesi verificata attraverso un ragionamento razionale: esso è vero per sua propria natura, e non riceve la propria verità altro che da se stesso.

Un principio siffatto è evidentemente il sogno realizzato di qualunque pensatore si proponga di cercare la Verità perché, in qualche modo, esso è la Verità stessa in forma di principio. Bisogna però ancora enunciarlo, e Aristotele non si esime dal farlo:

È impossibile che la stessa cosa, ad un tempo, appartenga e non appartenga a una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto (e si aggiungano pure anche tutte le altre determinazioni che si possono aggiungere, al fine di evitare difficoltà di indole dialettica). È questo il più sicuro di tutti i princìpi: esso infatti possiede quei caratteri sopra indicati. Infatti, è impossibile a chicchessia di credere che una stessa cosa sia e non sia […]. [Arist. Met. Γ 3, 1005 b 19-24]

Questa è la prima formulazione del principio che poi verrà chiamato ‘di non contraddizione’ (PDNC), ossia il fondamento ed il cardine della razionalità stessa. Tale principio enuncia l’impossibilità del darsi concreto della contraddizione, ovvero anche del contraddirsi. Per enunciarlo in altri termini, si può dire che è impossibile che un medesimo oggetto possieda predicazioni contraddittorie tra loro nel medesimo tempo e sotto i medesimi rispetti. Ad esempio, Napoleone può essere giovane e vecchio, ma non nello stesso momento (è possibile in anni diversi); Napoleone può essere grande e piccolo ma non sotto i medesimi rispetti (è grande come generale e piccolo per statura fisica). Ciò che occorre tenere a mente è la distinzione tra ‘contrarietà’ e ‘contraddizione’: bianco e nero sono ‘contrari’ perché non esauriscono l’intero campo delle possibilità (se un oggetto non è né bianco né nero può essere uno qualsiasi degli altri colori), mentre bianco e non-bianco sono ‘contraddittori’ tra loro perché completano l’intero campo (il ‘non-bianco’ contiene non solo il ‘nero’ ma anche tutti gli altri colori possibili e l’assenza di colore). Pertanto un vaso può essere né bianco né nero, ma dovrà essere necessariamente o bianco o non-bianco (tertium non datur).

     Una volta enunciato il PDNC, è necessario argomentare se davvero esso sia quel principio che stavamo cercando, ossia se davvero sia quello “intorno al quale è impossibile cadere in errore”. Qui però appare un dilemma che sembra inestricabile: abbiamo detto che tale principio non può essere ipotetico, e perciò non può essere verificato attraverso un normale ragionamento, pena il cadere in una petizione di principio che renderebbe nullo il nostro intento. Perciò come ‘dimostrare’ un principio che è vero a prescindere? Deve soccorrerci un tipo peculiare di dimostrazione che Aristotele stesso definisce élenchos, ovvero ‘confutazione’ (della negazione del primo principio). La definizione di una Verità elenctica è la seguente: una Verità che è tale perché persino chi volesse negarla sarebbe costretto a confermarla. In altre parole non è necessario dimostrare che il principio sia vero, ma semplicemente mostrare come di esso non si dia negazione, ossia che la sua negazione è impossibile.

Prendiamo quindi la negazione del PDNC: “è possibile contraddirsi”, oppure “è possibile che la medesima cosa sia e non sia nel medesimo tempo secondo il medesimo rispetto”; chiamiamo l’enunciatore di tale negazione il ‘negatore’. Ora, il negatore esprime una proposizione, ed è necessario che egli intenda voler dire qualcosa, che la sua proposizione abbia un significato. Avere un significato vuol dire che dev’essere possibile discernere che cosa egli intenda e che cosa egli non intenda. La negazione del PDNC impedirebbe appunto ogni forma di determinazione e, quindi, di comprensione: se è possibile che qualcosa abbia e non abbia un determinato predicato nel medesimo tempo e sotto il medesimo rispetto, allora in riferimento a tale predicato questo qualcosa sarà indeterminato – se un vaso è bianco e non-bianco allora non sarà possibile determinarne né il colore né l’assenza di colore. Si noti che anche la negazione del principio dev’essere determinata come negazione, ossia dev’essere una negazione del principio e non una sua affermazione. A questo punto si danno due importanti considerazioni: la prima è che evidentemente qualsiasi tentativo di negare il principio, proprio per potersi dare come negazione (anche solo come intenzione negativa), lo deve presupporre; la seconda che il PDNC è il principio della determinazione stessa, e proprio per questo è il più universale ed il più noto di tutti (secondo una famosa formulazione esso esprime la realtà per la quale “ogni cosa è ciò che è, e non un’altra cosa”).

     Dal punto di vista del principio è chiaro che qualsiasi tentativo di negazione non è semplicemente destinato al fallimento, ma è propriamente impossibile; questo perché anche la mera formulazione nel pensiero della volontà di negare il principio lo presuppone. Dal punto di vista della Verità, invece, esso si dimostra innegabile perché qualsiasi negazione sia formulata è auto-negativa. Questa distinzione è invero complessa e richiederebbe una trattazione a parte; basti dire in questa sede che tale distinzione è solamente astratta.

Si noti però un punto molto importante (il quale solitamente nello studioso meno accorto genera un fraintendimento che porta a conseguenze disastrose): il negatore del PDNC non fallisce perché la sua negazione è auto-contraddittoria! Se infatti si accusasse il negatore di contraddirsi, ebbene egli potrebbe con buona ragione cantar vittoria, visto che il suo intento era esattamente quello di dimostrare che è possibile contraddirsi, e che per questo il PDNC può essere negato.

     Completiamo l’analisi del movimento elenctico riportando una notazione di Emanuele Severino. Nel testo aristotelico è necessario distinguere due dimensioni peculiari: una è l’élenchos della negazione del primo principio (ovvero la sua confutazione), il secondo è il diorismós essenziale di tale principio:

Il diorismós essenziale del principio più saldo […] è l’impossibilità che la stessa coscienza (lo stesso hypolambánein) sia convinta di affermazioni opposte, cioè si trovi in errore rispetto al principio più saldo – dove questa possibilità è fondata su questo principio […]. L’élenchos è invece l’accertamento, come già si è richiamato, che la negazione del principio più saldo può essere siffatta negazione solo in quanto è affermazione, accettazione di ciò che essa intende negare.[2]

In altre parole l’élenchos equivale alla situazione per la quale la negazione di ‘x’ implica l’affermazione di ‘x’. Mentre il diorismós è il fatto che la stessa coscienza non può essere convinta allo stesso tempo di due affermazioni che sono tra loro contraddittorie (infatti Aristotele scrive che nessuno può essere convinto che la stessa identica cosa sia e non sia). Severino nota come il diorismós, lungi dall’essere un possibile appiglio per un’accusa di psicologismo ai danni del pensiero aristotelico, è in realtà un’individuazione particolare del PDNC stesso; infatti se ad una coscienza si potessero attribuire due proposizioni contraddittorie nel medesimo tempo e sotto i medesimi rispetti, ecco che tale coscienza sarebbe un ente contraddittorio. Ma poiché non si dà violazione del PDNC (perché la sua stessa negazione è una sua affermazione), non si danno nemmeno coscienze contraddittorie.

     Rimane un’ultima domanda alla quale rispondere: che cosa c’entra tutto questo con il percorso ontologico che abbiamo finora seguito? Per rispondere è necessario spostarsi in un’altra opera aristotelica, e precisamente nel De Interpretatione, trattato contenuto nell’Organon. Riportiamo la citazione:

Che ciò che è sia, quando è, e che ciò che non è non sia, quando non è, risulta certo necessario; non è però necessario, che tutto ciò che è sia, né che tutto ciò che non è non sia. In effetti, l’essere per necessità di tutto ciò che è, quando è, non equivale all’essere per necessità, assolutamente, di tutto ciò che è. Similmente si dica per ciò che non è. [Arist. De Interpretatione, 9, 19 a 23-26][3]

Benché il trattato sia un’analisi delle proposizioni e dei giudizi, si ritiene che questo passo possa essere comunque un buon chiarificatore della posizione ontologica di Aristotele. Come si può notare, qui ontologia e PDNC trovano la loro congiunzione: si tratta di un’esposizione dell’Essere secondo la sua incontraddittorietà. Dovrebbe risultare chiaro come il cosiddetto ‘parricidio’ operato da Platone nei confronti di Parmenide giunga qui al supremo compimento: non si tratta più di predicare l’essere dell’Essere come Verità assoluta, ma di predicare l’essere dell’Essere quando è e il non essere del non- Essere quando non è (pena il contraddirsi). Non è però necessario che “tutto ciò che è, sia”, ed infatti quando ciò che è non è, allora si dovrà semplicemente predicare di esso che non è, e sarà sufficiente a rispettare il sommo principio, ossia il PDNC.

Sostanzialmente Aristotele ammette che vi sono casi in cui l’Essere non è (e si dovrà dire che non è) e casi in cui il non-Essere è (e si dovrà predicarne l’essere). Questo perché tutto dipende dal ‘quando’: quando l’Essere è, è necessario che sia; quando invece non è, è necessario che non sia. In altre parole Aristotele ammette il passaggio dal non-Essere all’Essere e dall’Essere al non-Essere, e lega tale movimento (che per Parmenide era la follia dei mortali a due teste) al principio innegabile, indiscutibile e inconcusso: quel principio che né déi, né uomini, possono far vacillare.

[1] Aristotele, Metafisica, Bompiani, Milano 2017. Tutte le citazioni di Metafisica provengono da questo volume.

[2] Emanuele Severino, Fondamento della contraddizione, Adelphi, Milano 2005, pp. 63-64.

[3] Aristotele, Dell’Espressione (De Interpretatione), in Organon, Adelphi, Milano 2003, pp. 68-69.