… un’età ibrida tra l’infanzia e la vita adulta, così decisamente tendente verso la prima piuttosto che la seconda.
L’età del consenso in Italia è di 14 anni, rispetto ad una media mondiale che si assesta sui sedici anni.
In altre parole, la legislazione italiana prevede che, e perdonate la boutade, se domani decidessi di andare fuori da una scuola e vedere quanti/e quattordicenni vorrebbero dare il loro consenso ad un rapporto sessuale con me, nessuno potrebbe arrestarmi. Malgrado ciò, sono sufficientemente sicura che più di qualche genitore ricorrerebbe al primo avvocato disponibile per farmi avere quantomeno un’ordinanza restrittiva.
Questo, solo nella misura in cui il noto filosofo italiano, Umberto Galimberti, dovesse sbagliarsi nel dichiarare che ‒ e cito a memoria ‒ «i nostri giovani sono apatici e depressi»; perché più quest’analisi è valida e generale, e più è probabile che nessuno dei giovani in questione si accorgerebbe delle mie avances. Ma resto pur certa delle reazioni avverse dei genitori e della società tutta.
Dunque, non è sono una minoranza coloro che nel dipingersi questa scenetta tragicomica vorrebbero togliersela subito dalle mente! Il sospetto di chi scrive è che se la maggioranza degli adulti non vede di malocchio le ragazze ed i ragazzi che scoprono assieme la sessualità, qualche domanda in più sorge qualora nel quadro dovessero inserirsi degli adulti assieme ai minori.
Poveri i nostri giovani! Costretti ad avere a che fare con noi adulti che, consapevoli della loro naturale instabilità emotiva, e del loro biologico culmine libidico, li considerano incapaci di compiere scelte razionalmente ponderate in quasi ogni campo dell’esistenza, tranne che quando si tratti di decidere con chi andare a letto ‒ e lasciamo da parte i puritani che, a vario titolo, vorrebbero togliere questa libertà anche agli adulti consenzienti che non siano sposati e ben decisi a riprodursi.
Troppo giovani per votare e decidere le sorti del paese (giacché è noto quanto siano politicamente influenzabili i minori); e non neghiamo il nostro istintivo terrore nell’ipotesi di concedere ad una quattordicenne la licenza di guida di un’automobile o di un qualsiasi veicolo a quattro ruote. E, come se non bastasse, per molti anni a venire, dopo la maggiore età, abbiamo estreme riserve sulle loro capacità giudizio per sé e per gli altri. Non senza qualche ragione, gli adolescenti, sono ancora troppo piccoli per questo: sono minorenni.
Questo editoriale ha un difficile compito: riflettendo su questo giro di problemi, torna alla mente questo numero ‒14 ‒ per l’età del consenso, che indica un’età ibrida tra l’infanzia e la vita adulta, così decisamente tendente verso la prima piuttosto che la seconda. Qualcuno, e potrei riconoscere la voce squillante della mia amica speaker radiofonica, potrebbe far presente quanto la nostra sia una società “pedofilica”. E basterebbe chiedere alle proprie amiche se a loro sia mai capitato o abbiano visto capitare, quando erano minorenni, che un adulto intrattenesse rapporti con una minorenne; e non servirebbe un particolare dono nell’arte dell’analisi prossemica per realizzare quanto sia difficile da digerire come scenario. Gli abusi su minori maschi emergono, purtroppo, meno di frequente rispetto a quanto si ritiene sia il sommerso corrispondente; la mia ipotesi è che questa disparità sia dovuta allo stigma sociale che ancora circonda l’omosessualità – specie tra adolescenti di determinate estrazioni socio-culturali – e la percezione sociale peculiare che riguarda i rapporti tra una donna adulta ed un maschio minorenne; non vorrei riproporre delle banalità ma è indubbiamente più accettato che ci siano divari di età considerevoli se la ragazza è più giovane. Mentre, allo stesso tempo si fatica ad accettare l’idea – da parte di ambi i generi – che una donna possa molestare un maschio in ambito sessuale.
Lasciatemi, però, proporre un chiarimento, prima di accusarmi di “complottismo”: non credo esista una cricca di maschi potenti e cattivi che attivamente e coscientemente piega le masse per rendere accettabili alcune situazioni ed inaccettabili altre. Se così fosse sarebbe tutto molto più semplice da capire – e da cambiare!. La questione, temo, affonda le sue radici in una realtà ben più lunga e complessa.
Gli studi antropologici non fanno che evidenziare come nel momento più oscuro della storia, quello dei primi viaggi intercontinentali, si siano manifestate più ingiustizie: nello scoprire popolazioni diverse da quella occidentale è comparso nel mondo intellettuale dell’epoca un sistema di classificazione del mondo sia al di fuori che, in seguito, nelle viscere dell’Europa stessa. Se lo sguardo verso l’esterno organizzava gli uomini primitivi in diverse categorie a seconda della loro potenza militare, della costituzione o meno di una polis, dell’avere o meno una gerarchia religiosa, all’interno delle società europee nasceva una piramide sociale comparativa. Al vertice, imperante, sovrasta l’uomo logico ‒ che di solito appartiene allo stesso gruppo socio-culturale dell’autore del sistema stesso, ossia dell’intellettuale che istituisce la classificazione ‒ per poi scendere negli scalini inferiori passando per uomini di fatica, donne, bambini, malati mentali, criminali, -cani-, animali, natura.
(Il dettaglio sui cani viene da un simpatico aneddoto su Darwin ed il suo legame appunto con i cani; legame che divenne studio e che lo portò ad indicare in questi la forma più primordiale di religione. Darwin intendeva la religione come sottomissione ad un’entità maggiore).
Collegandoci nuovamente alla questione del consenso, sono proprio le elucubrazioni intorno ai primitivi che alcuni eruditi missionari hanno suggerito a mettere una pessima cornice ad un brutto dipinto. Che gli uomini primitivi fossero umani era chiaro, ma lo erano un po’ meno di quanto avrebbero dovuto esserlo, più prossimi ad essere uomini silvestri che civili. Era dunque d’uopo spingerli all’umanizzazione (che suona tanto simile all’esportare la democrazia), per poter salvare l’anima di questi disperati senza dio ‒ e se per farlo fino in fondo era necessario l’uso della violenza, ben pochi santi padri del nostro calendario si sono esentati dal dare il loro fraterno aiuto.
Questi trattati sono stati scritti e questi scritti sono stati letti anche da coloro che operavano in Europa per l’Europa. Se esistono delle gerarchie e queste hanno uno stampo morale non è difficile capire come sottotraccia esse abbiano agito nel modo in cui ancora oggi pensiamo ed agiamo in modo classista, paternalistico e giudicante. Da questo, quanto ne consegue: una sensibilità ostacolata da un sentimento, ormai calcificato dai secoli, di superiorità di alcuni su tutti gli altri.
È importante conoscere il percorso storico compiuto dalle nostre società per comprendere meglio il presente e limitare le disaffezioni sociale che si creano in un contesto di rigida classificazione verticale non sono fra le specie viventi, ma persino tra i singoli appartenenti alla stessa. E può essere utile riflettere approfonditamente su questioni come quella del consenso, per far emergere i portati indiscussi del passato che ancora disseminano nonsensi o contraddizioni nella nostra struttura sociale e culturale. Perché le questioni continuamente riproposte – a volte in modo tutt’altro che ragionato – dai femministi, dagli ambientalisti e dagli attivisti in genere, nascondono sempre problematiche latenti che non abbiamo ancora – come società – saputo affrontare.
In chiosa vorrei solo aggiungere questo: la cultura del disinteresse per tutto ciò che non ci tocca in prima persona è una lama a doppio taglio, che si sta già mostrando come tale.