Come nascono questo universo, queste galassie e queste stelle, questa terra vivente, questi esseri umani e lo spirito che li anima? A lungo abbiamo cercato di dare risposta a queste domande – alla Domanda – e molte volte abbiamo trovato un’idea, una teoria, un sistema capace di dare un senso al Tutto e alla sua origine. Tra queste la Kabbalah ebraica, nata dalla sapienza, ha ancora una lingua per parlare del Mistero.
Non è semplice definirla in breve, ma devono bastare qui pochi cenni. Nasce in circoli esoterici ebraici di origine provenzale (Linguadoca) e si diffonde nella Spagna settentrionale del XIII secolo. Nel 1305 compare lo Zohar – Il libro dello Splendore – che ne è il gioiello e il testo principe. I riferimenti della Kabbalah medievale sono sostanzialmente nell’ambito del neoplatonismo, della gnosi e del mito.
È uno spasimo creatore di auto-limitazione, un ritrarsi in sé per lasciar spazio all’altro da sé. L’infinito si comprime in sé stesso per poter dar vita al finito.
In questo testo si presentano dottrine ricchissime, antiche, profonde e a lungo studiate. Fin dalla loro genesi esse hanno una natura complessa e sfaccettata, piena di sfumature di senso, di percorsi argomentativi, di strade e sentieri. Sarebbe per questo impossibile darne qui un’immagine completa ed adeguata. L’operazione che chi scrive ha compiuto, quindi, è la seguente: si immagini un grandissimo pezzo di stoffa steso su di un tavolo; si segnino due punti fra loro abbastanza distanti; ora, con la punta delle dita, se il lettore prendesse la stoffa in quei punti e li avvicinasse, si creerebbe una piega, una sacca al di sotto della congiunzione. Questo è esattamente ciò che qui accade. Si pongono vicini dei concetti fondamentali, ma la grande struttura che li unisce davvero rimane, purtroppo, celata. Questo testo spera di essere per alcuni un primo sguardo sulla materia, per altri una rapida sintesi di qualcosa che già si conosce. In ogni caso una semplice eco della sua reale grandezza.
Il primo grande sistematizzatore del pensiero cabalistico è Moshe Codovero (1522-1570). Qui la creazione è in un certo modo emanazione del Divino. Il mondo si evolve (Histalshelut) in sequenza dall’essere infinito di Dio (Ein Sof). In principio è l’Essere dell’Ein Sof, e da esso promanano le Sephirot – che sono i suoi attributi – e agiscono come forze autonome. Esse sono anche gli strumenti con i quali Dio crea e continuamente vivifica il basso Reame fisico e i Reami metafisici superiori (Seder hishtalshelus). All’inizio dello Sepher Jetsirah – Il libro della Formazione – troviamo queste parole:
Dall’infinito essere del’Ein Sof promanano le dieci Sephirot, che gli appartengono come suoi attributi e sono il metro e la misura della costruzione del mondo finito. Attraverso di esse promana la sapienza dall’Ein Sof ai Regni inferiori; attraverso di esse dai Regni inferiori saggezza ed intelligenza portano all’Ein Sof. Ma se Egli è infinito, ed infinita è la sua estensione e la sua luce e la sua essenza, dove si colloca il mondo finito al di fuori di Lui? A questa domanda risponde il secondo grande unificatore e sistematizzatore della Kabbalah, Isaac Luria (1532-1572).
Nella formulazione luriana è centrale il tema messianico, assieme ai concetti di ‘esilio’ e ‘redenzione’ divini. Compare qui una grandiosa cosmogonia, così profonda e densa di significato nella sua inesauribilità da non potersi dire.
In principio è l’Ein Sof, e la sua essenza e la sua luce pervadono il Tutto, e nulla è al di fuori di Lui, e Lui è Tutto. Egli, allora, opera lo Tzimtzum – ritrazione/contrazione – in sé stesso. Come se dio espirasse profondamente senza più inspirare, come se trattenesse in sé la sua stessa luce, la sua potenza, la sua estensione ed il suo essere. È uno spasimo creatore di auto-limitazione, un ritrarsi in sé per lasciar spazio all’altro da sé. L’infinito si comprime in sé stesso per poter dar vita al finito. Dopo la contrazione dell’Ein Sof si apre uno spazio concettuale vuoto (Khalal Hapanoi), un luogo non luogo, poiché Egli è ogni luogo e ogni cosa. In questo spazio vuoto l’Ein Sof immette un raggio limitato della sua luce (Kav) che vivifica e diffonde la luce divina (Ohr) attraverso le dieci Sephirot e gli Tzimtzumim secondari (ossia i regni creati dalla progressiva diminuzione della luce divina).
Nello schema di Luria le dieci Sephirot sono in quest’ordine: Chokhmah (Saggezza), Binah (Comprensione), Daat (Conoscenza), Chesed (Benevolenza), Ghevurah (Rigore), Tiferet (Bellezza), Nezach (Eternità/Vittoria), Hod (Gloria), Yesod (Fondamento), Malkuth (Regno/Sovranità). Lavoro lunghissimo sarebbe quello di vedere e comprendere ogni legame di dipendenza che congiunge questi attributi divini e queste ‘misure’ del mondo. Le Sephirot sono attributi dell’Ein Sof, e sono eterne. Allora che cosa crea all’inizio nello spazio vuoto? Degli Hakelim, dei Vasi vuoti nei quali riversa la Luce divina. Ma questi vasi creati non possono sopportare la potenza della Luce di Dio; avviene così la Shevirat Hakelim, la rottura dei vasi, e la luce dell’Ein Sof si riversa in una pioggia di stille sullo spazio vuoto del finito. Nel mondo finito, dunque, la presenza divina (Sekhinah) è duplice: nel raggio (Kav) di luce che vivifica attraversando le dieci Sephirot, e nelle scintille disperse. Compito dell’essere umano è quello di ricomporre la luce divina: le Mitzvot (le osservanze ebraiche) e le azioni virtuose ricongiungono le scintille dell’Ohr della Sekhinah alla loro origine prima, l’Ein Sof.
Dio ritrae la sua potenza ed il suo essere per consentire l’esistenza del mondo. Già solo quest’idea pura ha in sé tanta profondità da sconcertare e meravigliare. E il paradosso stesso della presenza/assenza di Dio, della sua limitazione/emanazione è degno di essere accolto tra i grandi pensieri dell’umanità.
Ancora dopo Auschwitz il filosofo Hans Jonas ritornava allo Tzimtzum per spiegare l’assenza di Dio, per rispondere alla domanda cruciale: può un Dio onnipotente, buono e comprensibile aver permesso tutto questo?[2]
Quanto scritto è – come si è detto ‒ breve, superficiale, lacunoso: è un sguardo veloce gettato da un treno in corsa sul limitare di una foresta di senso, parole, significati, idee e sapienza. Ma forse, per cominciare, è abbastanza.
[1] Sepher Jetsirah, tradotto dal testo ebraico con introduzione e note di Savino Savini, R. Carabba editore, Lanciano aprile 1938, pp. 53-54.
[2] Cfr. Hans Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, Il Nuovo Melangolo.