“Credo che questo genocidio sia in corso, e che stiamo assistendo al tentativo sistematico di distruggere gli Uiguri da parte del partito statale cinese”. Quella riportata è la dichiarazione dell’ex segretario di Stato americano Mike Pompeo, rilasciata nel gennaio di quest’anno, poco prima di abbandonare la propria posizione istituzionale. Genocidio, sistematico e distruggere, sono rispettivamente un sostantivo, un aggettivo ed un verbo che, inseriti nella stessa frase, riportano chi ascolta ad un tempo passato, un tempo che conosciamo e manteniamo vivo nella memoria perché gli orrori del passato non debbano più ripetersi, un tempo in cui un popolo tentò di distruggere totalmente un altro popolo riuscendo ad eliminare un numero approssimativo di 6 milioni di umani, la Shoah.
Quanto suggerito dall’ex Segretario di Stato è che qualcosa di simile stia riaccadendo in Cina dove varie minoranze avrebbero sofferto arresti arbitrari, sterilizzazioni forzate, torture, separazione dei figli dai propri genitori, lavori forzati e restrizioni alla libertà di religione, espressione e movimento, accusando i funzionari cinesi di essere impegnati nell’assimilazione forzata e nell’eventuale cancellazione di un gruppo etnico e religioso minoritario e vulnerabile.
Il territorio in questione, oggetto dell’attenzione della comunità internazionale, è quello dello Xinjiang, una regione della Cina situata al confine con Mongolia, Russia e Kazakhstan. La vasta regione è abitata da 22 milioni di persone, la maggior parte delle quali di etnia uigura, una minoranza turcofona costituita da circa 12 milioni di persone, di religione islamica sunnita, con proprie tradizioni e propria scrittura. Gli Uiguri sono uno dei 56 gruppi etnici riconosciuti dal partito comunista cinese; storicamente rappresentavano l’etnia maggioritaria nell’area finché il governo centrale non ritenne di iniziare ad incoraggiare l’insediamento del gruppo etnico maggioritario Han, facendo venir meno il primato uiguro.
Da oltre 50 anni la popolazione dello Xinjiang chiede l’indipendenza, senza tuttavia trovare apertura in tal senso da parte del governo cinese che, plausibilmente per ragioni culturali, di ricerca di uniformità e di controllo politico, ha sempre negato qualsiasi apertura sul tema. Ciò è dovuto al fatto che le autorità cinesi considerano l’area di importanza strategica sia dal punto di vista economico per le risorse energetiche di cui è ricca, sia dal punto di vista geopolitico configurandosi quale sbocco su Medio-oriente e Asia centrale.
La determinazione della Cina di proteggere i propri interessi di sovranità, sicurezza e sviluppo è incrollabile.
Lo Xinjiang da circa 6 anni è a tutti gli effetti uno stato di polizia. La motivazione ufficiale si sostanzia in un’esigenza di maggior controllo dell’area in oggetto, stante il fatto che nella stessa hanno avuto modo di nascere e organizzarsi, all’interno dei gruppi jihadisti, alcune cellule terroristiche tra cui il Movimento islamico del Turkestan orientale. Ciò che emerge tuttavia è che non solo gli appartenenti ai gruppi terroristici, ma tutta la popolazione uigura è sottoposta ad una rigida sorveglianza attraverso installazioni forzate sui propri smartphone di applicazioni per il controllo della navigazione e di telecamere a riconoscimento facciale nel territorio, nonché intercettazioni telefoniche di massa.
La motivazione addotta da Pechino è quella della necessaria lotta al terrorismo; dietro tale facciata, tuttavia, pare celarsi un più ampio processo di sinizzazione della regione, attraverso la de-islamizzazione della popolazione locale che porta di fatto alla cancellazione del popolo stesso. Ciò è avvalorato da diverse inchieste giornalistiche che hanno rivelato l’esistenza di centri di detenzione e rieducazione dove circa un milione di uiguri sarebbe incarcerato, obbligato ai lavori forzati nei campi di cotone e sottoposto all’indottrinamento sulla cultura cinese in un un’ottica di progressiva de-islamizzazione. Così, mentre il governo centrale giustifica tali luoghi sulla scena internazionale definendoli “centri di istruzione professionale” per sradicare l’estremismo e il terrorismo, qui di fatto vengono incarcerati anche comuni cittadini con fedina penale pulita, la cui unica colpa è l’esser nati dell’etnia sbagliata.
A rendere il quadro generale più cupo c’è la presa di coscienza di una sorta di progettualità da parte del governo cinese inerente la riduzione delle nascite uigure, nell’ottica di provocarne la definitiva estinzione. Questo concetto viene definito dalla Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio del 1948 come genocidio demografico e si esplica in Xinjiang attraverso sterilizzazioni di massa, aborti indotti, imposizioni di metodi contraccettivi e nei casi peggiori con l’uccisione dei neonati.
Il fenomeno sta emergendo sempre più prepotentemente sulla scena internazionale, tantoché la Cina è stata oggetto di accuse da parte di ONG, attivisti ed esperti di diritti umani presso l’ONU, e ciò ha di recente indotto Stati Uniti, Canada, Europa e Regno Unito ad annunciare sanzioni contro i funzionari cinesi. Risulta interessante notare come anche il settore economico nell’ambito della moda stia dando il suo contributo alla causa, attraverso una netta presa di posizione per quanto concerne la situazione in Xinjiang. I marchi che si sono esposti in tal senso sono ad oggi H&M, Nike, Adidas e Burberry; H&M in particolare ha dichiarato di non voler più acquistare cotone proveniente dall’area dello Xinjiang, e ciò ha provocato la reazione della televisione statale cinese Cctv che ha invitato i consumatori al boicottaggio del marchio svedese.
Sarà interessante notare come evolveranno nel corso dei prossimi mesi gli equilibri internazionali e le “alleanze da guerra fredda”, così come sono state definite da Sergej Lavrov, ministro degli esteri russo. Ad oggi la Cina si dipinge come una vittima degli errori fatti nella narrazione della situazione in Xinjiang e classifica le sanzioni unilaterali nei suoi confronti come inaccettabili in quanto basate su bugie e false affermazioni, esortando Usa e UE a riconoscere la gravità dei loro errori interrompendo lo scontro per non causare ulteriori danni.
A prescindere dalla verità di ognuno, risalta – fra la moltitudine di parole espresse da tutti gli attori in gioco circa la questione Xinjiang e le sue conseguenze sul piano internazionale – un concetto tanto semplice quanto rivelante espresso in conclusione di un proprio intervento pubblico, tenuto in occasione della convocazione dell’ambasciatore europeo a Pechino il 22 marzo scorso, dal viceministro degli esteri cinese Qin Gang: la determinazione della Cina di proteggere i propri interessi di sovranità, sicurezza e sviluppo è incrollabile.
[3] https://www.ilsole24ore.com/art/pechino-insiste-boicottaggio-marchi-che-non-vogliono-piu-usare-cotone-xinjiang-ADLTCDUB?refresh_ce=1
[4] https://www.agi.it/estero/news/2021-03-23/russia-e-cina-contro-usa-e-ue-11887433/