Affrontare temi che riguardano genere, identità e orientamento sessuale è quasi diventato uno sport estremo. Magari non uno di quelli in cui ci si lancia da un ponte o una piattaforma appesi ad una corda elastica, quello no di certo. È forse più paragonabile ad una corsa sulle uova; bisogna avanzare il più velocemente possibile ma con estrema delicatezza. Velocemente perché è decisamente ora che la nostra società si metta al passo con chi vive al suo interno, con delicatezza perché effettivamente è facile fare il passo più lungo della gamba, dando per scontato temi che scontati non lo sono affatto.
Questo avanzare in punta di piedi è valido anche – soprattutto – per la questione della violenza di genere. La stessa terminologia utilizzata per trattare l’argomento è molto sfaccettata e confusa, tanto da andare a costituire una sorta di campo minato in cui passeggiare con tranquillità e leggerezza è decisamente fuori discussione (a meno che non si cerchi un modo rapido per porre fine ai propri tormenti). Basti pensare alla parola genere in sé, che spesso viene utilizzata come un termine più elegante da sostituire alla parola sesso, ma che in realtà ha un significato diverso. Se con il termine sesso si intendono generalmente caratteristiche biologiche, il termine genere è un concetto legato all’aspetto personale e sociale dell’identità del singolo. Altri termini che vengono frequentemente confusi o mal interpretati sono quelli che riguardano la violenza. Infatti, la violenza di genere viene spesso assimilata alla violenza sessuale e, in particolare, alla violenza contro le donne. Eppure, questi termini non sono affatto sinonimi.
L’espressione violenza di genere va ad indicare quelle azioni che danneggiano fisicamente, economicamente o psicologicamente una persona a causa del suo sesso o del suo ruolo di genere, stabilito dalle norme sociali entro le quali l’individuo si riconosce e viene a sua volta riconosciuto. Letteralmente, considerato il termine “di genere”, tale violenza può essere indirizzata tanto a uomini, quanto a donne e in generale verso tutti coloro che non si riconoscono in un sistema di genere binario. La violenza sessuale, ovvero l’insieme delle aggressioni a sfondo sessuale, non è che una delle forme che può assumere la violenza di genere ed è una categoria sfortunatamente ben più ampia del “solo” stupro. Utilizzando invece l’espressione violenza contro le donne si va ad esaminare una porzione del problema, concentrandosi su una determinata tipologia di vittime, composta, per l’appunto, da donne e ragazze. Queste precisazioni potrebbero risultare come un eccesso di pignoleria. Tuttavia, le parole hanno un peso. Utilizzare un termine fuori contesto, senza rendersi conto appieno del suo significato, finisce con il diluire il concetto stesso, privandolo almeno in parte della sua capacità di fare presa sulla realtà e sulle persone. Ciò è particolarmente importante quando si tratta di argomenti delicati quanto quelli sopracitati.
C’è anche da sottolineare che questo tipo di violenze sorge da svariate convinzioni sociali sul sesso, genere e/o ruolo di genere di un individuo. Ciò implica che diversi tipi di violenza siano indirizzati verso diversi generi, proprio a causa dei preconcetti che vengono associati a ciascuno di essi. Esempio di tale fenomeno è il fatto che gli uomini sono maggiormente colpiti da violenza relativa all’uso di armi da fuoco mentre le donne sono più comunemente vittime di violenza domestica. Ovviamente, ciò non significa che le donne non possano essere vittime della prima e gli uomini della seconda: semplicemente il numero dei casi è minore.
Vi è un’ulteriore implicazione: nel momento in cui avviene un episodio che non rientra nelle categorie create dal nostro immaginario sociale esso raramente emerge o, se lo fa, viene distorto (ammesso e non concesso che venga, in primis, denunciato). Di base, ciò che ci si aspetta quando si viene posti davanti ad un episodio di violenza di genere è che una donna – vittima – abbia subito un abuso da un uomo – carnefice. Ciò dipende sia dall’esorbitante numero di casi che vengono riportati mondialmente, sia dal fatto che le battaglie portate avanti dai movimenti femministi nel corso dei decenni hanno aperto la porta a questo tipo di discussioni. Le stime a riguardo fanno effettivamente accapponare la pelle: al mondo, 738 milioni di donne (quasi una donna su tre) hanno sofferto di violenza fisica o sessuale, spesso per mano del loro partner. Nell’Unione Europea una donna su dieci dichiara di aver subito molestie via internet a partire dall’età di 15 anni. La consapevolezza che poi questa è solo la punta dell’iceberg – solo il 14% delle donne denuncia questo tipo di aggressioni – atterrisce ancor di più.
Si parla principalmente di donne come vittime perché i dati reperibili per quanto riguarda gli uomini e tutti coloro i quali non si conformano ad un sistema di genere binario sono alquanto carenti. I secondi raramente vengono riconosciuti come tali, e quindi finiscono per essere assimilati in altre categorie, di fatto vedendosi sottrare il dovuto riconoscimento. Per quanto riguarda gli uomini, invece, essi denunciano violenze in percentuale addirittura minore rispetto alle donne, percentuale già bassa in partenza. La cosa non sorprende. A causa degli stereotipi associati alla figura maschile nella società contemporanea è estremamente difficile per un uomo ammettere di essere stato vittima di violenza di genere, specie quando questa violenza è tipicamente associata ad un immaginario vittimistico femminile (come la violenza domestica o la violenza sessuale). Spesso, infatti, si assiste alla femminilizzazione della vittima, derivata dall’associazione, tipica delle società patriarcali come la nostra, di debolezza e passività all’essere femmina.
Che il maggior numero di vittime di violenza di genere sia costituito da donne non viene messo in discussione, anzi. Tuttavia, la convinzione che esista solo il binomio uomo-carnefice/donna-vittima arreca alla causa più danni che benefici. Da un lato rende difficile a vittime che non corrispondono a questo binomio il farsi avanti e denunciare le violenze subite, siano esse sessuali o meno. Dall’altro, va a perpetuare quella visione stereotipata della società che presenta la donna unicamente come vittima, soggetto da proteggere, che subisce ma non agisce e l’uomo come un essere forte e invincibile. Nessuna delle due visioni corrisponde alla realtà. Le donne non sono succubi, né inermi. Gli uomini possono essere vittime e non solo carnefici. Non considerare la complessità della questione nel suo insieme, presentando un discorso sostanzialmente unico, va a rafforzare quella cultura tossica che sta alla base di una società patriarcale e ineguale. Irrobustisce quelle convinzioni alla base di frasi e commenti quali “eh, che ci vuoi fa’, so ragazzi” oppure “ma ha aspettato otto giorni per denunciare”, che per primi contribuiscono a perpetuare un clima che legittima la violenza.
[1] CONNELL, R. W., & MESSERSCHMIDT, J. W. (2005). Hegemonic Masculinity: Rethinking the Concept. Gender and Society. 19, 829-859.
[2] FÉRON, E. (2018). Wartime sexual violence against men: masculinities and power in conflict zones.
[3] RISMAN, B. J. (2004). Gender as a social structure: theory wrestling with activism. Gender and Society. 429-450.