Un povero
diavolo

Nient’altro che un
povero diavolo

Maria Pia Tiozzo
Letteratura

Quando qualcuno mi chiede chi io sia, mi guarda con aria incuriosita domandando l’origine del magnetismo che attira a me chiunque, rispondo così. A volte con aria sorniona, a volte con un sorriso tagliente (così mi è stato detto) e affascinante. Il sorriso, il mio sorriso: è tutto ciò che mi ricorda il posto da cui vengo, il posto che esito a chiamare casa solo perché un povero diavolo non ha fissa dimora. Non ho nostalgie di alcun tipo – sia chiaro – ma a volte mi sorprendo a trastullarmi con pensieri inutili: “chi sa come sarei se fossi rimasto lì dove son nato”.

Pensieri che scaccio subito eppure sempre un secondo in ritardo. Un povero diavolo, certo, ma pur sempre un diavolo: le fantasticherie non si addicono alla mia costituzione, sono cose da mortali. La mia natura è fantasia: un viaggio compiuto, un circolo che si avviluppa e prende consistenza, un tarlo che insiste fino a divenire ossessione. I capricci, le suggestioni, le voglie che ci si può permettere di non inseguire, sono cose da poco: cose da mortali, appunto. Lo dico senza il benché minimo giudizio morale, addirittura con ammirata gratitudine: se così non fosse, io non avrei ragione di esistere.


Gli orgasmi sotto la metoxetamina con cui vi fate pungere il culo sono la cosa più misera che abbia mai abitato un bordello.

Se questa debolezza della perversione, questa strutturale incapacità di volere fino in fondo la dissoluzione, non incrinasse la vostra esistenza cristallina e piana, pur non potendo propriamente morire, morirei ogni giorno. La cosa più bella è che sentite le folate di ciò che c’è oltre di voi infilarsi attraverso le crepe delle vostre esistenze, ne siete incuriositi – come lo sono i bambini dal dolore, i bambini che sono i veri diavoli con il loro inseguire innocente di qualsiasi cosa punga i loro sensi – e al tempo stesso non ne fate esperienza se non raramente. Fa ridere lo sforzo del vostro squallore: i più solerti si ritrovano a rigirarsi nel nulla tra corpi già svuotati, pensando di avere abbracciato l’annientamento e poi, appena il giro è finito, la mia campana suona l’ultimo rintocco, tornano alle rispettive confortevoli ordinarietà, senza neppure sospettare di non aver grattato oltre la superficie della dissoluzione.

È per questo che noi siamo qui, a tollerare il tanfo pungente della vostra carne – se credete che sia divertente o piacevole fare[1] il diavolo, sbagliate – mentre vi allunghiamo ciò di cui siete paradossalmente dipendenti. Siamo qui a somministrarvi oculatamente la sensazione di essere totalmente titolari della vostra esistenza, tanto da potere annientarla. Gratis malus, avrebbe detto un vecchio amico. Ed è gratuito davvero, quanto vi diamo: non ci guadagniamo nulla, anzi, stiamo qui a logorarci, a dimenticare quel posto da cui veniamo, che non possiamo chiamare “casa”[2] . Mentre ve ne state accartocciati nei vostri vestiti o cercate in un corpo la messa a terra delle vostre convulsioni – il mefedrone nel martini vi martella –, mentre vi pensate erotomani sull’orlo del precipizio e credete di essere nuda vita che urla e trionfa – gli orgasmi sotto la metoxetamina con cui vi fate pungere il culo sono la cosa più misera che abbia mai abitato un bordello – noi siamo qui a chiederci che cosa esistiamo a fare, se unirci a voi sarebbe tra il disgustoso e il noioso e il vostro squallido sogno dà la nausea. È qui che noi poveri diavoli abbiamo la più divertente illuminazione – ghignate pure, sì, “ah i diavoli illuminati” –, comprendiamo la ragione precipua della nostra presenza al vostro fianco. E vi svegliamo e mormoriamo alle vostre menti – a quello che ne resta il lunedì mattina – che siete ancora qui, conciati peggio di prima, pronti a ricominciare.

E godiamo, profondamente godiamo delle vostra condanna.

[1] Fare il diavolo, sì, come se fosse un mestiere e non una proprietà intrinseca. È una questione di ontologia: non siamo altro che ciò che facciamo, noi diavoli, siamo tutt’uno con la nostra natura, che straborda fuori di sé nelle belle pratiche con cui esistiamo. Notazione a margine: usate una parola del futuro (“natura”, appunto) per indicare qualcosa che vorreste salva nel passato, al sicuro dal sopraggiungere del nuovo. E poi quelli storti saremmo noi.

[2] Non è che non vogliamo, è che non possiamo fisicamente, non dopo esserne stati cacciati. A beneficio dei critici, dovrei dire: non dopo che abbiamo deciso di esserne scacciati, sì. Dopo tanto tempo, ha tutto il sentore di una lite famigliare neppure troppo importante, certamente non ricomponibile.

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