«È nel perdonare che siamo perdonati»
San Francesco d’Assisi.
La questione inerente al rapporto tra madre e figlio ha, soprattutto negli ultimi mesi, interessato l’opinione pubblica nonché alimentato i dibattiti culturali e televisivi, anche per alcuni corollari quali la questione dell’aborto affrontata anche dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.
Se infatti tale legame rappresenta la più alta forma di amore, indiscusso e totale, esistono dei casi in cui tutto questo si è invece trasformato nell’opposto: la morte.
Ecco, quindi, che in tal caso viene abbandonata l’astrattezza e la tragicità del mito greco di Medea, a favore della concretezza, troppo spesso asettica, della norma penale.
Su questo argomento, i cui connotati non possono essere considerati solamente in maniera giuridica, è stata investita di recente la giurisprudenza di legittimità.
La Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi su un caso di omicidio commesso dalla madre nei confronti del figlio appena nato.
Dalla ricostruzione effettuata emerge che, dopo aver tenuto nascosto il suo stato di gravidanza e aver partorito in casa, l’imputata aveva posto il figlio appena nato in un sacchetto di plastica, abbandonandolo dietro una siepe, approfittando dell’assenza temporanea del compagno.
La Corte quindi si è interrogata se sussistesse una volontà omicidiaria, come affermato dal Tribunale e successivamente dalla Corte d’Appello, oppure il mero abbandono del figlio; tali reati, che possono sembrare ad un giudizio morale molto simili, sono profondamente diversi per l’ordinamento penale.
La Corte nell’esaminare il ricorso presentato dal difensore dell’imputata rileva quanto segue: «Ritiene il Collegio di dare continuità all’opzione ermeneutica, prevalsa nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui la concreta situazione di abbandono, costituisce un requisito della fattispecie oggettiva da leggere tuttavia “in chiave soggettiva” o comunque in senso “individualizzante” (Sez. 1, n. 40993 del 7 ottobre 2010, Grieco, Rv. 248934 – 01; Sez. 1, n. 26663 del 23 maggio 2013, Bonito, Rv. 256037 – 01 Sez. 1, n. 28252 del 22 gennaio 2021, Izzo, Rv. 281673 – 01). La situazione di “abbandono materiale e morale”, pertanto, pur rappresentando elemento del fatto tipico non deve rivestire carattere di assolutezza, in quanto è sufficiente ad integrarla “la percezione di totale abbandono avvertita dalla donna nell’ambito di una complessa esperienza emotiva e mentale quale quella che accompagna la gravidanza e poi il parto”.
Di conseguenza, la fattispecie prevista dall’art. 578 c.p. è applicabile anche quando sia possibile, nel contesto territoriale ove avviene il parto, il ricorso da parte della madre all’aiuto di presidi sanitari o di altre strutture, ma la condizione di solitudine esistenziale in cui versa la donna le impedisce di cogliere tali opportunità, inducendola a partorire in uno stato di effettiva derelizione (Sez. 1, 13 giugno 1991, n. 8489)».
Il ragionamento effettuato dalla Suprema Corte si basa su dei precedenti giurisprudenziali consolidati in materia che impongono non solo una valutazione letterale della norma, ma una necessaria analisi psicologica e sociale del contesto esistenziale in cui la donna si pone.
Giudizio che non concerne solamente il mero fattore culturale ed economico, rappresentato da una non meglio specificata soglia di povertà, ma che concerne e abbraccia tutta la sfera umana che caratterizza una gravidanza e la successiva crescita del figlio.
In particolare, il ragionamento della Corte evidenzia che: «Nel determinismo dell’evento delittuoso possono, quindi, avere un ruolo attivo tanto fattori biologici quanto sociali e relazionali nella misura in cui incidano, da un lato, sulla condizione di severo stress psicofisico che accompagna il parto e, dall’altro, sul contesto di particolare sfavore e solitudine nel quale si collocano dapprima la gestazione e poi il parto
Rilevano, quindi, quali indicatori della condizione di “abbandono”, che comunque deve essere percepita come “totale” da condizionare in modo assorbente la decisione di sopprimere il neonato, non solo i casi di gravidanza nascosta oppure osteggiata con conseguente solitudine materiale e affettiva, la povertà estrema, il contesto sociale degradato, ma anche l’insufficiente maturità culturale della gestante o comunque una condizione psicologica individuale gravemente alterata dall’esperienza emotiva e mentale che accompagna la gravidanza ed il parto».
Quello che deve essere correttamente valutato dal giudicante non è l’evento morte, che rappresenta già un fattore grave, ma le motivazioni sottese a tale gesto.
Si deve quindi evidenziare se sussista una chiara e precisa volontà della madre di sopprimere il figlio appena nato, oppure se vi sia la scelta, altrettanto tragica, di abbandonare lo stesso a causa di condizioni, non solo prettamente economiche, ma anche sociali e personali, tali da far compiere alla madre un gesto che, almeno a livello psicologico, è totalmente contrario ad ogni istinto.
La Corte di cassazione quindi, ha annullato la sentenza della Corte d’Appello e rinviato alla stessa per un nuovo giudizio.
Se quindi la giustizia penale ha fatto, non ancora definitivamente, il suo corso, permangono gravi interrogativi sui quali tutti noi, e specialmente il giurista, dobbiamo confrontarci e riflettere.
L’abbandono di un figlio ad opera della madre, ma anche la mera omertà sulla gravidanza, atto che dona vita, crea invece uno stato di disagio psichico e fisico tale da comportare una scelta tragica.
Si badi: per quanto facile, non si può liquidare la faccenda come una malattia psichica, oppure come un disagio economico; sarebbe una mera e sterile semplificazione.
Così come non si può colpevolizzare la mancata interruzione della gravidanza nei termini di legge o la presenza di medici obiettori che renderebbero tale possibilità difficoltosa se non impossibile; in tal senso difatti la soluzione a tale problematica non è ampliare o rendere più facile l’accesso all’aborto che, indipendentemente dalla scelta, comporta una riflessione profonda e probabilmente anche travagliata.
Né, infine, si può dire che la difficoltà si sarebbe potuta risolvere mediante l’abbandono in ospedale o in altra struttura sanitaria che garantisca l’anonimato alla madre e la sicurezza al neonato.
Anzi tali elementi diventano forieri di riflessione sul perché strumenti sociali simili non siano stati utilizzati.
Occorre dunque riflettere sul perché, nemmeno così raramente visto l’apposita previsione normativa e le statistiche pur non precise vista la segretezza che ammanta la questione, il gesto di amore per eccellenza possa essere tenuto nascosto anche al proprio partner o, nei casi più gravi, sfociare nell’omicidio o nell’abbandono totale di una creatura appena nata e portata nel grembo per nove mesi.
Quello che mi è venuto in mente, come primo pensiero dopo aver letto questa sentenza, è una frase di San Francesco d’Assisi: «È nel perdonare che siamo perdonati».
In tal senso quindi occorre andare oltre il mero aspetto giuridico del fatto, che sarà deciso in un’aula di giustizia, e soffermarsi su quello umano e psicologico.
Il gesto di sopprimere un figlio, andando contro quello che è il naturale rapporto tra madre e neonato, è intriso di disperazione, angoscia ed emozioni che non possono essere comprese e forse nemmeno immaginate.
È per questo che tale atto merita solo una cosa: il perdono.
Infine, oltre al supporto psicologico e alla questione economica, basterebbe far sentire la donna e la madre compresa, supportata e felice di poter fare una cosa unica: donare la vita.
Per ora, invece, è solamente condannata.
[1] Cass. Pen., Sez. I, 30 giugno 2022, n. 24949.