Ruanda. In genere, questo nome evoca un paio di reazioni diverse. La prima solitamente è una corsa – effettiva o immaginaria – al mappamondo più vicino, per tutti coloro che non hanno l’abitudine di consultare atlanti geografici mentre bevono il caffè. La seconda, più comune per coloro che negli anni Novanta avevano raggiunto un’età sufficiente da interessarsi agli accadimenti del mondo, consiste nell’evocazione di qualche ricordo fumoso di Hutu, Tutsi ed un sanguinoso genocidio. Nessuna delle due reazioni è particolarmente sconvolgente, anzi, sono entrambe decisamente comprensibili. Del resto, il minuscolo Ruanda difficilmente si può diventare il fulcro delle attenzioni del mondo occidentale. Tuttavia, questo piccolo, sovrappopolato paese dell’Africa centro – orientale, sotto i riflettori internazionali lo è stato – sebbene per poco. Era il 1994, l’anno in cui il Ruanda fu devastato da quello che il mondo ha imparato a conoscere come il famigerato genocidio dell’etnia Tutsi da parte di membri dell’etnia Hutu, sebbene le atrocità abbiano riguardato i membri di tutti i gruppi etnici del paese.
Nell’arco di un centinaio di giorni un enorme numero non ben definito di persone – si stima fra le 500.000 e il milione – sono state brutalmente torturate ed uccise in tutto il paese. Il genocidio del 1994 è stato il prodotto di decenni di divulgazione di precise immagini settarie, legittimate politicamente, che sono andate a depositarsi su di un tessuto sociale attraversato da profonde disuguaglianze e portato allo stremo da anni di guerra civile (1990-1993) – da cui il paese è uscito devastato economicamente, politicamente e socialmente. Nonostante un cospicuo flusso di aiuti umanitari, ben pochi avrebbero scommesso sul fatto che il Ruanda si sarebbe, un giorno, ripreso da un simile trauma. .
Addirittura, gli stessi elementi che danno tanto motivo di vanto al paese, tra i quali la sua attenzione alle politiche di genere, finiscono col diventare strumenti nelle mani del regime, impiegati per mantenersi al potere.
Chiaramente, un simile accadimento è impossibile da dimenticare e rimarrà per sempre come un marchio indelebile nella storia e nella società ruandesi. Tuttavia, con il passare degli anni, il mondo ha iniziato a guardare al Ruanda con sempre più stupore ed ammirazione, meravigliandosi del suo impegno, della sua dedizione e, soprattutto, dei suoi risultati nella ricostruzione del paese. Tale rilancio ha avuto notevoli ripercussioni sull’immagine personale dei fautori di tale ripresa: il presidente Paul Kagame e il suo partito, il Fronte Patriottico Ruandese (FPR). Entrambi, infatti, hanno incontrato il favore di organizzazioni internazionali, singoli governi ed organizzazioni non governative, grazie al netto e costante miglioramento segnalato dall’economia ruandese, oltre che alla – molto sbandierata – attenzione per le politiche di genere.
Con questo termine si intendono la totalità delle misure implementate a livello statale per garantire l’uguaglianza fra i generi, quali, ad esempio, le quote rosa e le misure antidiscriminazione. Il fatto che il paese abbia addirittura superato la Svezia in quanto a numero di donne parlamentari ha causato sorpresa e sgomento nella comunità internazionale. A dire il vero, è facile condividere questo entusiasmo, quando si considera da dove il paese è partito e dove è stato in grado di arrivare, riuscendo addirittura a rivaleggiare con un paese ‒ la Svezia, appunto ‒ perennemente al vertice delle classifiche che valutano il grado di ‘democrazia’ nel mondo. A maggior ragione, quando questo impegno nei confronti della parità di genere si è confermato come una tendenza duratura da parte del governo ruandese, ulteriori valutazioni positive sono andate a depositarsi nei curricula di Kagame e del FPR.
Tuttavia, queste valutazioni positive non sembrano sufficienti a controbilanciare del tutto le profonde tendenze autoritarie del paese, sebbene riescano in qualche misura a mascherarle. Del resto, se si considera che il presidente Kagame e il suo partito si trovano alla guida del paese dal 1995 senza interruzione, qualche dubbio sulla qualità della democrazia ruandese sorge spontaneo. Se ciò poi viene sommato al numero e tipologia di restrizioni sempre crescenti imposte sui diritti civili e politici dei cittadini ruandesi, alle violazioni dei diritti umani compiute nei paesi vicini e al rifiuto di riconoscere alcuna responsabilità sui propri crimini di guerra compiutidal 1990 ad oggi, la situazione appare ben meno idilliaca.
Fin dai primi anni di governo, è apparso chiaro che l’allora vicepresidente e ministro della difesa Paul Kagame e la sua cerchia più intima avessero come obiettivo di rimanere al potere il più a lungo possibile e continuare a detenere un saldo controllo sul paese, a scapito degli accordi che prevedevano la condivisione della guida dello stato. Tale volontà è stata recepita molto in fretta dai principali esponenti politici e rappresentanti della società civile del paese che, non appena espresso il loro disaccordo, hanno dovuto affrontare una feroce ondata di repressione, che ha costretto molti a fuggire per poter salvaguardare la propria sopravvivenza. Dopo tali premesse, non c’è da stupirsi se gli anni appena successivi al genocidio siano stati caratterizzati da moltissime sparizioni e assassini, da una continua repressione della società civile e della comunità mediatica e dal tentativo di cooptare quanti più gruppi e persone possibili. A distanza di venticinque anni tali strategie, impiegate per mantenere il controllo sul paese, appaiono essere ancora la norma.
Tuttavia, mezzi quali la repressione dell’opposizione politica, la censura e la cooptazione non sono le sole utilizzate dal regime per mantenere lo status quo. Addirittura, gli stessi elementi che danno tanto motivo di vanto al paese, tra i quali la sua attenzione alle politiche di genere, finiscono col diventare strumenti nelle mani del regime, impiegati per mantenersi al potere. Primo fra tutti l’utilizzo delle quote rosa, introdotte dalla nuova costituzione del 2003, la quale sancisce che il 30% degli organi decisionali dello stato debba essere composto da donne. Solitamente, l’applicazione di simili misure in paesi con un passato autoritario viene accolta con molto favore perché vi è la diffusa convinzione che un parlamento bilanciato dal punto di vista del genere produca risultati più democratici e, dunque, migliori.
Purtroppo, nel contesto ruandese, il parlamento è quasi esclusivamente composto dal FPR e da partiti da esso cooptati. Tutti i parlamentari vengono sottoposti ad un rigido esame, controllato indirettamente dallo stesso FPR, che in teoria dovrebbe garantire l’idoneità dei politici ma, in pratica, costituisce un ottimo modo per epurare qualsiasi traccia di opposizione al regime. In un contesto simile, essere uomo o donna fa ben poca differenza; nel momento in cui una persona diventa parlamentare, essa è concorde, connivente o semplicemente costretta ad obbedire alle direttive della ristrettissima cerchia ai vertici dello stato. Nel momento in cui viene insinuato anche il più piccolo dubbio sulla lealtà di un qualunque parlamentare, questo viene immediatamente allontanato, imprigionato o “scompare”. Per questo motivo, nel caso del Ruanda, pensare che l’alto numero di donne in parlamento produrrà di per sé migliori risultati appare un po’ troppo ottimistico. A maggior ragione, in un paese dove il parlamento non ha alcuna vera libertà e svolge un ruolo di servizio in favore dell’élite dominante, l’alta percentuale di donne al suo interno non è sintomo né di una migliore democrazia, né di un miglior parlamento. Esso, infatti, si limita semplicemente ad attestare la presenza di un alto numero di donne leali al FPR, fattore che contribuisce a mantenere il regime stabile e forte.
Inoltre, l’attenzione alle parità di genere da parte di Kagame e del suo governo aiuta la stabilizzazione dello stato ruandese anche in altro modo. Le politiche di genere del FPR, infatti, dimostrano l’adesione del Ruanda agli standard internazionali, andando a costituire una sorta di “Velo di Maya” che nasconde le reali condizioni del Paese e mette Kagame e la sua cerchia al riparo da eventuali critiche ed attacchi della comunità internazionale. Tale mascheramento risulta indispensabile per il regime, dato che proiettare un’immagine positiva di sé è vitale per attirare fondi e investimenti, dai quali il paese è profondamente dipendente a causa della sua povertà di materie prime. Oltretutto, pubblicizzare la dedizione del regime nel conseguimento della parità di genere, significa sottolineare l’impegno dello stesso nel riconoscere i diritti dei propri cittadini, come se ciò potesse bilanciare il fatto che poi quegli stessi diritti vengano calpestati in altri settori.
In sostanza, sembra che il governo ruandese, più che per un desiderio di rappresentanza eguale dei suoi cittadini, abbracci misure progressive come le politiche di genere come strumento di Realpolitik: esse ne stabilizzano il potere e consolidano tale presa sul lungo periodo.
[1] Reyntjens, F. (2015). Rwanda: progress or powder keg?. Journal of Democracy, 26(3), 19-33.
[2] Debusscher, P., & Ansoms, A. (2013). Gender equality policies in Rwanda: public relations or real transformations?. Development and Change, 44(5), 1111-1134.
[3] Longman, T. (2006). Rwanda: Achieving equality or serving an authoritarian state?.