La notte è paura, perdita di orizzonte e disordine di vite, è un nascondersi per ritrovarsi, uno spegnersi per riaccendere il vero fuoco d’essere, è un lasciar scorrere il tempo per rinascere a se stessi.
In questa notte di preparazione alla rinascita accade lo stra-ordinario: un enigma irrisolvibile prende le sembianze di un volto e una fiaccola si accende e mostra inaspettatamente la soluzione a quel mistero.
Nel passato, l’oracolo di Delfi era rifugio di molti che ne invocavano aiuto, in preda a domande che tormentavano la loro esistenza. Apollo, mediante la Pizia, rispondeva attraverso un detto enigmatico il cui senso era in un altrove sconosciuto e che, paradossalmente, lo costituiva: un detto indecifrabile conteneva un dire rivoluzionario. Il filosofo Emmanuel Levinas parla dell’enigma e, addirittura, attraverso un linguaggio non immediato, la sua stessa filosofia si pone come un oracolo: essa addita sempre al di là del detto ambiguo, per smantellarlo, per oltrepassarlo e così, raggiungere un dire originario.
“Verbo è fatto dell’impossibilità di esprimersi. Amore-mistero d’altri-Verbo-mistero di me”.
In Levinas detto e dire sono termini che esprimono la ricerca della verità. In particolare, il detto è ciò che viene espresso ambiguamente da un ente: un enigma avvolge il linguaggio ontologico.
Secondo Levinas, il detto infatti nel suo pronunciarsi mostra un dire che si dà nel segreto come un sussurrio delicato, “l’essere[…]fa risuonare l’essenza senza assordare completamente l’eco del Dire che la sostiene e la fa nascere” [1]. Il dire è origine del detto. Nel dire è racchiusa l’essenza, la risoluzione compiuta, mentre nel detto vi è l’essere, inteso come verbo, ciò che esprime lo scorrere del tempo dove si stagliano gli avvenimenti personali dei singoli individui:
L’essenza[…]è la verbalità del verbo[…]L’essere è il verbo stesso[…]Il linguaggio nato dalla verbalità del verbo non consisterebbe soltanto nel far sentire, ma anche nel far vibrare l’essenza dell’essere.[…]la parola identifica « questo in quanto questo» […] Identificazione che è donazione di senso: « questo in quanto quello» [2].
Il detto rimanda sempre ad un altrove, un dire che sussurra nelle pieghe dell’esistenza, la cui comprensione stimola azione e pensiero di ogni individuo che, in crisi, brancola tra coraggio e disperazione. Nel suo sottrarsi continuamente, l’enigma porta infatti scompiglio, è un terzo elemento che si insinua per condurre ad un cambio di prospettiva e di mentalità e, secondo Levinas, può essere riconosciuto solo liberamente: sia che si scelga di comprenderlo, che di rifiutarlo, comunque esso, nebbia che confonde, ridesta l’essere umano. Nel complicarsi dell’intreccio tra un detto ambiguo e un dire profondo, infatti, improvvisamente, egli ritrova una somiglianza che lo scuote: in esso ritrova l’immagine del suo stesso volto che soffoca una verità da liberare. Cos’è davvero quel enigma?
Parlando dell’interiorità del soggetto, Levinas sottolinea come tale dimensione, esattamente come il dire celato linguisticamente nel detto, tra i suoi modi di darsi nell’esteriorità, ha anche la capacità di nascondersi, di “ ritirarsi nella notte di un se stesso” [3]: l’interiorità è sempre al buio, in quanto celata da parole, gesti che, sulla superficie, rendono difficile vederla e comprenderla. Internamente, ognuno è costituito da un dire, che conserva la vera essenza, voce delle notti di se stessi, sottoforma di un detto, enigmatica apparenza. L’enigma di sé e della realtà riaccende il pensiero dell’uomo e gli ricorda di guardarsi dentro. Esso rappresenta quindi la radice d’essenza di ogni essere umano: ognuno di noi è un enigma incarnato d’esistenza che si dà inevitabilmente in maniera confusa all’interno di una comunità di sguardi, nascondendo la verità di sé in un’oscurità deviante che attende solo una fiaccola per rischiararsi. Siamo occhi che custodiscono un piccolo lume tra le luci accecanti delle città, mani di gesti superficiali, frutti di profonde radici, corpi coperte di anime, in cui il senso vero è nel buio, enigma, mezzo di rinascita personale e collettiva. La forma dell’anima umana è un enigma, nascosta nella notte di un detto che cela un dire di senso.
Cos’è quella fiaccola che fa emergere la soluzione, che riconsegna alla nostra anima enigmatica la forza per rinascere rinnovata alla sua stessa vita?
Per rispondere, vorrei sottolineare un elemento presente a Delfi: vi gironzola costantemente un vento particolare che è insieme brezza delicata e soffio violento, ciò che culla e ciò che mette i brividi, carezza e schiaffo. Nel passato, questo pneuma si incanalava in una voragine e dava voce alla Pizia.
Tale vento è metafora della comunità fatta di molteplici enigmi, che si insinua all’interno di ogni anima attraverso un detto ambiguo, tranello che fa tornare a se stessi per mostrare quel “dire che significa altrimenti” [4]: la comunità fa riscoprire la singolarità ed interpella a cambiare prospettiva per esistere ‘altrimenti’.
È interessante notare che questo vento rende ogni soggetto esposto, ‘nudo’, guardato e quindi capace di guardarsi intorno e dentro, perché toccato, insieme cullato e scosso da quella scoperta che avanza dentro di sé. Mentre diviene consapevole che l’enigma è in realtà il proprio sé da tornare ad illuminare per rispondere all’appello della comunità, per mezzo di essa, il soggetto si scopre quindi vulnerabile: la soluzione dell’enigma passa attraverso la fragilità. Siamo fragili quando, nella nostra identità enigma, ci scopriamo parte di una comunità di altrettanti misteriosi occhi, che pretendono allo stesso modo risposte, pur ritirandosi continuamente nelle proprie notti dell’anima. Come fare se ognuno pretende una risoluzione che sia cura e azione responsabile? La soluzione è una carezza.
La carezza è una modalità d’esistenza da apprendere da quel vento greco per risolvere l’enigma delle identità: la notte oscura di un enigma si fonde con ogni volto umano, lo muta attraverso un vento di comunità e lo illumina grazie alla fiaccola di una carezza d’esistenza. Essere carezza d’esistenza significa divenire capaci di vegliare e di combattere per gli altrui se stessi nelle loro notti per comprendere meglio la propria, curare per curarsi, custodire nella responsabilità per custodirsi. Farsi carezze d’esistenza risponde all’appello della comunità ad esistere altrimenti per gli altri, grazie agli altri e con questi, ed infine, mette in luce il dire, l’essenza di ogni identità, indicata nella stessa radice latina di ‘carezza’, carus: essere degli amati che, tra fragilità e forza, cercano di rendere la propria vita conforme alla sua essenza nascosta nella notte di un enigma, che parla attraverso un vento e si risolve nella luce di una carezza, l’amore. “Verbo è fatto dell’impossibilità di esprimersi. Amore-mistero d’altri-Verbo-mistero di me” [5].
[1] Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano 2011, p.59.
[2] Ivi, pp. 44-45.
[3] Ivi, p35.
[4] Ivi, p.59
[5] Emmanuel Levinas, Quaderni di prigionia e altri inediti, a cura di R. Calin e C. Chalier, Bompiani, Milano 2011 p.150.