Accade a volte, in filosofia, che un pensatore decida di ripartire dal principio, nel tentativo di dare un fondamento nuovo e solido al proprio pensiero, non meno che alla filosofia stessa. Inutile qui ricordare quanto la necessità di un fondamento inconcusso – elenctico – sia un impegno di primaria importanza per un filosofo che voglia elevare le proprie riflessioni a sistema. Tale tentativo, se va a buon fine, diviene una vera e propria rivoluzione all’interno della storia del pensiero, e lascia un segno profondo ed indelebile. A questa tipologia di pensatori appartiene, senza dubbio, René Descartes.
Quanto verrà di seguito esposto è il primo passo compiuto in direzione di un’uscita dalla teologia razionale – benché, come vedremo, probabilmente questo non fosse affatto l’intendimento di Cartesio. Ciò non toglie che il suo tentativo di fondare in modo certo ed indiscutibile il fondamento gnoseologico, e di conseguenza ontologico, apra la strada alla possibilità, per i pensatori successivi, di svincolare la filosofia prima dalla teologia; tuttavia, in varie forme, il concetto di Dio permane ancora a lungo come fondamento o culmine dei sistemi filosofici.
[…]finché penso, allora so che sono almeno qualcosa che pensa: penso dunque sono – sono, esisto [cogito ergo sum – ego sum, ego existo].
L’opera su cui si farà affidamento sono le Meditazioni metafisiche (Meditationes de prima philosophia), pubblicate nel 1641.[1] Il sottotitolo indica chiaramente quali fossero le intenzioni dell’autore: “nelle quali vengono dimostrate l’esistenza di Dio e la distinzione dell’anima dal corpo”. Per poter adempiere a questi propositi, Cartesio riterrà necessario ripartire da un fondamento gnoseologico indiscutibile, per poter allo stesso tempo liberarsi da tutti gli errori presenti nel pensiero filosofico precedente, ed esser certo che qualsiasi conclusione raggiunta sia tale in Verità e senza alcun dubbio o, con le sue parole, chiara e distinta. La prima parte sarà quindi, naturalmente, dedicata alla pars destruens del discorso, e davvero si può dire che Cartesio fa – o perlomeno intende fare – tabula rasa di tutto ciò che è stato pensato precedentemente. Si legga l’incipit della prima meditazione:
Per ‘omnia’ Cartesio intende davvero ogni cosa, e non solo i principi filosofici – benché questo sia da intendersi solo a livello teorico, perché egli stesso chiarisce nei Principia philosophiae che sarebbe folle applicare concretamente tale metodo alla vita pratica. Saranno però da mettere in discussione le leggi del mondo, l’esistenza stessa del mondo, delle cose fisiche, degli enti sovrasensibili, addirittura della propria stessa esistenza; insomma, tutto ciò che si abbia mai percepito o pensato. Questa posizione viene definita solitamente come “dubbio iperbolico”, e viene esplicata in un significativo passaggio sempre della prima meditazione:
La parola d’ordine è ‘dubitare di tutto’ perché di nulla si può essere certi che sia vero nel senso più profondo ed indiscutibile del termine. A questo punto, però, ci si trova in una situazione spinosa: certamente non si corre il rischio di prender per vero qualcosa che è falso, ma allo stesso tempo non si può prender per vero nulla. Così, senza basi d’appoggio solide, il pensiero stesso resta annichilito, perché non può più muovere un passo senza correre il rischio di precipitare nell’abisso dell’insensatezza, dell’errore, del falso. Servirebbe un punto fermo, un fulcro archimedeo sul quale poter far leva per ricominciare a costruire secondo verità ciò che è stato negato. Ed è proprio qui che fa la sua comparsa il movimento elenctico, che come si è già visto è l’unico vero fondamento della Verità innegabile. Seguiamo ancora una volta il nostro autore nella seconda meditazione:
Nient’altro che questo: la massima potenza razionale che si manifesta nella massima semplicità. Seppure io penso di essere costantemente ingannato, non posso dubitare del fatto che penso di essere ingannato; se dubito, non posso dubitare del fatto che sto dubitando; finché penso, allora so che sono almeno qualcosa che pensa: penso dunque sono – sono, esisto [cogito ergo sum – ego sum, ego existo]. Il movimento elenctico, in questa struttura di pensiero, si esplica così: per poter dubitare della mia esistenza devo presupporre di esistere come qualcosa che dubita. Se pure io negassi di esistere dovrei presupporre di esistere come qualcosa che nega la propria esistenza. La proposizione “io nego di essere” presuppone la verità della proposizione “io sono”, ergo la proposizione “io esisto” ha statuto elenctico, perché è riconfermata persino dalla propria negazione.
A questo punto, tuttavia, Cartesio ha dimostrato solo che fintantoché si pensa si è qualcosa, e propriamente si è ‘qualcosa che pensa’ [res cogitans]. Altro è dimostrare che esista veramente il proprio corpo e che le percezioni che in esso si imprimono per essere poi elaborate dal pensiero derivino da un mondo esterno composto di enti che esistano a loro volta. Il punto è: come posso dimostrare, secondo verità, che esiste qualcosa di ulteriore rispetto alla ‘cosa pensante’ ch’io sono? È necessario – è proprio il caso di dirlo – l’intervento divino: è necessario che Dio stesso si faccia garante della verità dell’esistenza del mondo. Pertanto, il passo successivo, sarà dimostrare l’esistenza di Dio.
Una ‘cosa pensante’, per definizione, ‘pensa’; e questo è tautologico. Se pensa, allora possiede anche delle idee, le quali sono i contenuti del suo pensare e in particolare sono “immagini di cose” (che si distinguono dagli altri pensieri: volontà, affetti, giudizi). Tra queste ve ne sono alcune di sfocate e confuse, ed altre di chiare e distinte; per Cartesio le prime sono sicuramente false, mentre le seconde vere: “mi sembra di poter stabilire come regola generale che è vero tutto quel che io percepisco molto chiaramente e distintamente”.[5] Tra tutte le idee chiare e distinte la più chiara e distinta di tutte è l’idea di Dio e della sua perfezione e infinitezza. Cartesio esclude, attraverso alcune dimostrazioni, che questa idea possa derivare dalla percezione di enti finiti esterni all’Io penso (perché non si percepisce mai un ente perfetto o infinito), ed esclude allo stesso tempo che tale idea sia creata dall’Io penso per sottrazione o addizione di qualità agli enti finiti (come il buio è assenza di luce, o l’infinito numerico è la somma di tutti i numeri). Rimane un’unica possibilità: l’idea di Dio deriva all’Io penso direttamente da Dio, e pertanto la causa di qualcosa di reale – questa idea – deve avere almeno altrettanta realtà di quanta ne ha il suo effetto. Pertanto la causa dell’idea di perfezione dev’essere qualcosa di perfetto, e la causa dell’idea di infinito dev’essere qualcosa di infinito. Questo breve riassunto non rende giustizia a tutte le argomentazioni addotte da Cartesio – ma davvero sarebbe troppo lungo riassumerle qui interamente; tuttavia porta a comprendere in generale perché il filosofo possa scrivere, nella terza meditazione: “bisogna invece concludere assolutamente che, per il solo fatto che io esisto e che in me c’è l’idea di un ente perfettissimo, ossia di Dio, è dimostrato con la maggior evidenza che anche Dio esiste”.[6]
L’ultimo passaggio, quello che chiude il fondamento gnoseologico cartesiano, è il riconoscimento che Dio, in quanto perfetto, non può essere un malvagio ingannatore. Questo perché la malvagità e l’inganno sono privazioni di perfezione che non possono assolutamente appartenere all’ente perfettissimo; i concetti di perfezione e malvagità o inganno sono incompatibili, contraddittori, e pertanto Dio non può desiderare di ingannare l’uomo. A questo punto non resta che rilevare che l’errore, il falso, sono conseguenze del rapporto sbilanciato tra due facoltà umane: l’intelletto e la volontà. Il primo è finito, imperfetto, e procede solo all’interno dei propri limiti; la volontà, invece, come manifestazione del libero arbitrio che Dio ha donato all’uomo, è perfetta, e vuole ben più di quanto l’intelletto possa realmente gestire. Ogni qual volta si consente alla volontà di sopravanzare le capacità dell’intelletto si cade in errore, si assume per vera la falsità.
Pertanto la realtà esterna all’Io penso esiste, il mondo esiste e Dio è garante della sua esistenza, ed è garante altresì della verità di tutto ciò che percepiamo in modo chiaro e distinto. Ogni errore, ogni idea confusa e distorta, ogni falsa credenza è invece imputabile all’incapacità di gestire la propria volontà.
La fondazione elenctica dell’Io penso compiuta da Cartesio e la gnoseologia che da essa deriva, sono un punto cardine della storia del pensiero filosofico. Sarebbe difficile immaginare l’opera di grandi pensatori moderni e contemporanei se non vi fosse stato, precedentemente, Cartesio ad aprire questa strada.
[1] Tutte le citazioni di quest’opera provengono dal volume: René Descartes, Meditazioni Metafisiche, traduzione e introduzione di Sergio Landucci, testo a fronte, Laterza, Bari 2009.
[2] Ivi, p. 27.
[3] Ivi, p. 35.
[4] Ivi, p. 41.
[5] Ivi, p. 59 (Terza meditazione).
[6] Ivi, p. 83.