Quo Vadis?

Marco Montagnin
Letteratura

Nella finzione letteraria vive un Petronio, non ha importanza che sia quello reale, è l’arbiter elegantiarum, un esteta

 

«Per i suoi notevoli meriti come scrittore epico»

Henryk Adam Aleksander Pius Sienkiewicz fu insignito, nel 1905, del premio Nobel per la letteratura.

Sienkiewicz nacque nell’allora ‘Polonia del Congresso’ – stato vassallo della Russia imperiale – nel 1846.

Figlio di nobili decaduti, si iscrisse prima alla facoltà di medicina, poi a quella di legge ed infine si trasferì a quella di storia e filologia; nella sua vita fece il tutore, il giornalista, lo scrittore ed in parte il viaggiatore.

Amato e criticato, i suoi lavori divennero best seller internazionali, la sua fama superò quella di altri grandi scrittori tanto da favorirlo al Nobel, eppure dopo la sua morte le sue opere vennero ben presto dimenticate ‒ a differenza di quelli a cui aveva sottratto l’ambito premio, primo tra tutti Lev NikolàevičTolstòj.

Fu Quo Vadis? l’opera che lo consacrò al grande pubblico, nonostante alcuni suoi lavori precedenti avessero ricevuto critiche positive.

Il successo del romanzo, tradotto nelle maggiori lingue europee, portò l’autore polacco alla fama internazionale, al punto che venne trasposto più volte in opera cinematografica, anche ad Hollywood nel 1951.

La travagliata vita amorosa dello scrittore influì in maniera marginale nella sua opera: i genitori della sua prima amata cancellarono il fidanzamento; successivamente si sposò ma sua moglie morì quattro anni dopo. Il secondo matrimonio durò appena due settimane; si sposò una terza volta, l’ultima, seppure in regime di avuncolato.

Il matrimonio come felicità, l’amore come forza trainante della vita, si riflettono nel suo romanzo: sia nella visione cristiana, più puro, sia in quella pagana in cui si è sopraffatti, inermi, travolti ed inconsapevolmente si è alla mercé di forze esterne. Tuttavia sembra che il maggior compimento del sentimento d’amore avvenga, in uno dei personaggi, nella sua forma edonistica, dove esso non è qualcosa di assoluto ma di complementare, non è imperituro ma temporaneo, e per questo è necessario goderne appieno:

Ed ora dico a me stesso: colmo la vita di felicità come la coppa del vino più prelibato che la terra

produca e berrò finché la mano avrà forza e finché le labbra non impallidiranno. Che avverrà dopo? Non m’interessa.[1]

Il suo animo apparentemente quieto sembrava aver bisogno di fuggire dall’ambiente, dalle persone, dallo Stato che chiamava casa; viaggiò negli Stati Uniti, nell’Europa Occidentale, in Africa, in Turchia, e durante questi viaggi prese sempre appunti, scrisse lettere e reportage che lo aiutarono nello sviluppo scenico di alcune sue opere.

Nell’ultima parte della sua vita, da progressista divenne un conservatore. Provò più volte ad usare la sua fama per portare l’interesse mondiale sulla situazione della Polonia ma senza risultati.

Quo Vadis? è un romanzo storico, incentrato sulla lotta tra il bene (i cristiani) ed il male (i pagani e primo fra tutti Nerone). La vicenda narra l’amore tra una fanciulla cristiana ed un nobile romano, le follie di Nerone, le dissolutezze pagane e mette in risalto la superiorità della dottrina cristiana.

Sienkiewicz provava un enorme ammirazione per la Roma antica ed amava la Roma cristiana.

L’autore si affida ad una vena narrativa fluente, intessuta, su uno sfondo sentimentale e patetico di immagini, visioni, evocazioni plastiche di uomini e di eventi. Le brillanti scene, abilmente descritte, risultano quadri manieristi, ricchi di odori, colori, di personaggi a cui viene data la possibilità, nella narrazione, di emergere ‒ per qualche parola ‒ dalla massa, divenendo così caratterizzati; nonostante questo, le scene vennero criticate perché storicamente non accurate.

La prosa a tratti epicheggiante deriva dalla passione mai attenuatasi di Sienkiewicz per le opere di Omero.

La storia, eccessivamente sentimentale, svuotata del romanticismo tedesco, decretò il successo del romanzo; eppure ciò non sarebbe stato possibile senza la capacità di Sienkiewicz di non stancare il lettore.  

La zattera girava ora vicino alle rive sulle quali in mezzo ai gruppi di alberi e di fiori si vedevano schiere di uomini travestiti da fauni e da satiri che suonavano flauti, zampogne e tamburi; vi erano anche gruppi di fanciulle, rappresentanti ninfe, driadi e amadriadi.

Infine calò l’oscurità tra grida ubriache in onore della Luna, che si levavano da sotto le tende; in quel momento i boschi si illuminarono di mille lampade. Dai lupanari disposti sulle rive si sprigionarono fasci di luce: sulle terrazze apparvero gruppi di donne discinte, mogli e figlie delle famiglie più aristocratiche di Roma, che con la voce e i gesti scomposti cominciarono a chiamare i banchettanti.

La zattera infine toccò terra, Cesare e gli augustiani si precipitarono, si sparsero nei lupanari, nelle tende nascoste nel folto, nelle grotte artificialmente costruite fra le sorgenti e le fontane.

La follia si impadronì di tutti; nessuno sapeva dove fosse andato Cesare, né si distingueva un senatore o un cavaliere da un saltimbanco o musicista. Satiri e fauni cominciarono a rincorrere, urlando, le ninfe, con i tirsi battevano contro le lampade per spegnerle. Alcune parti dei boschi erano avvolte nel buio. Da tutti i lati si udivano grida acute, risate, bisbigli e respiri ansimanti di petti umani.[2]

Nell’opera si intravede una lieve traccia del teatro romano: i personaggi, ben caratterizzati, restituiscono i sentimenti nascosti dello scrittore. Tuttavia non sono i protagonisti ma è un personaggio secondario a brillare di più, forse perché ispirato alla nota figura di Gaio Petronio Arbitro; la sua vita, dimenticata se non per brevi descrizioni storiche, ci appare dischiusa. Nella finzione letteraria vive un Petronio, non ha importanza che sia quello reale, è l’arbiter elegantiarum, un esteta che gioca con la sua stessa vita nella corte di Nerone. Consapevole di non poter vincere, non avendo paura della morte, vive senza timore c secondo i suoi desideri, circondato da ciò che ama: l’arte ‒ sia essa materiale inerte o vivente. La sua fine è edulcorata: la testimonianza lasciataci da Publio Cornelio Tacito sembra non avere l’eleganza che dovrebbe contraddistinguere un uomo come Petronio.

In quei giorni Nerone si era spinto in Campania, e Petronio, spintosi fino a Cuma, venne qui trattenuto. Egli non sopportò di restare oltre sospeso tra la speranza e il timore; non volle tuttavia rinunciare precipitosamente alla vita; si tagliò le vene e poi le fasciò, come il capriccio gli suggeriva, aprendosele poi nuovamente e intrattenendo gli amici su temi non certo severi o tali che potessero acquistargli fama di rigida fermezza. A sua volta li ascoltava dire non teorie sull’immortalità dell’anima o massime di filosofi, ma poesie leggere e versi d’amore. Quanto agli schiavi, ad alcuni fece distribuire doni, ad altri frustate. Andò a pranzo e si assopì, volendo che la sua morte, pur imposta, avesse l’apparenza di un fortuito trapasso. Al testamento non aggiunse, come la maggior parte dei condannati, codicilli adulatori per Nerone o Tigellino e alcun altro potente; fece invece una particolareggiata narrazione delle scandalose nefandezze del principe, citando i nomi dei suoi amanti, delle sue prostitute e la singolarità delle sue perversioni: poi, dopo averlo sigillato, lo inviò a Nerone. Spezzò quindi il sigillo, per evitare che servisse a rovinare altre persone.

La sua morte fu più raffinata, senza ripensamenti: lui e l’amata si recisero le vene durante il suo ultimo banchetto che finì con la sua morte ‒ in modo ben diverso da quello di Trimalcione.

Poi chiamò con un cenno il medico greco e gli porse il braccio. L’abile greco lo legò in un batter d’occhio con una fascia d’oro e aprì la vena al polso. Il sangue schizzò sul capezzale e bagnò Eunice che, sollevando la testa di Petronio, si chinò sopra di lui e disse: Signore, hai forse pensato che io ti avrei abbandonato? Anche se gli dei volessero darmi l’immortalità e Cesare il dominio del mondo, io ti seguirei. Petronio sorridendo si sollevò sul letto, sfiorò con le labbra la sua bocca e rispose: Vieni con me.

E poi soggiunse: Tu mi hai veramente amato, divina mia!

[…]

Ma egli diede ancora un segno al corago e di nuovo cetre e voci si fecero sentire. Cantarono dapprima Armodio e poi risuonò la canzone di Anacreonte nella quale il poeta si lamenta di aver trovato una volta davanti alla sua porta il figlio di Afrodite, intirizzito e piangente; lo portò con sé, lo riscaldò, gli asciugò le ali ed egli, ingrato, gli trafisse in cambio il cuore con una freccia; da quel momento il poeta non ebbe più un momento di tranquillità.

I due, appoggiati l’uno all’altra, belli come due dei, ascoltavano, sorridendo e impallidendo. Petronio, finita la canzone, ordinò di continuare a servire il vino e le pietanze; poi cominciò a parlare con i vicini di cose futili ma piacevoli, delle quali si usava discorrere ai banchetti. Chiamò il greco per farsi legare per un momento le vene poiché si lamentava che lo prendeva sonno, mentre egli voleva ancora abbandonarsi ad Ipnos prima che Tanatos lo assopisse per sempre. E infatti si addormentò. Quando si ridestò, la testa della fanciulla posava già inerte come un bianco fiore sul suo petto. Egli la depose sul capezzale per osservarla ancora una volta. Poi si fece slegare la fascia. I cantori a un suo cenno intonarono una nuova canzone e le cetre l’accompagnarono lievemente per non soffocare le parole. Petronio impallidiva sempre di più, ma quando l’ultima nota tacque, si rivolse ancora ai banchettanti e disse: Amici, riconoscete che insieme a noi perisce…

Ma non poté terminare la frase; il suo braccio con un ultimo gesto cinse Eunice, poi la sua testa cadde sul guanciale; e spirò. I banchettanti però guardando quei due corpi bianchi simili a bellissime statue, capirono che insieme con loro periva ciò che ancora era rimasto al mondo, cioè la sua poesia e la bellezza.[3]

Nonostante le critiche ‒ verso l’onnipresente lotta tra il bene ed il male, gli ideali cristiani, l’inesattezza storica ‒ l’opera, di splendida fattura, lo consacrò all’Olimpo della letteratura, accanto a colui che, due anni prima, aveva rivoluzionato la storiografia sull’antica Roma.[4]

[1] Sienkiewicz, collana scrittori del mondo: i Nobel, UTET, Torino 1964, p.250

[2] Ivi, p.256

[3] Ivi, pp.457-458

Ti è piaciuto l’articolo? Lascia qui la tua opinione su La Livella.

Did you enjoy the article? Leave here your feedback on La Livella.

Share on facebook
Facebook
Share on twitter
Twitter
Share on linkedin
LinkedIn
Share on email
Email