Prometeo
male
incatenato

Marco Montagnin
Letteratura

Ecco l’estrema plaga della terra, / la Scizia solitaria, inaccessibile. / Ora è tua cura ciò che il padre impone, / Efesto: ora avvincerai il colpevole / a queste rocce ardue sull’abisso / con catene più dure del diamante. / La luce artefice di tutto, il fuoco, / il fiore tuo, egli lo ha rubato / e ne ha fatto partecipi i mortali. / Deve agli dei pagare la sua colpa. / Impari a odiare il potere di Zeus! / E il suo amore per gli uomini abbia pace.[1]

Così si apre il Prometeo incatenato di Eschilo, opera che consacra il mito del titano all’immortalità. Prometeo creò l’uomo, gli donò l’intelletto, il fuoco, la capacità di evolversi dallo stato di natura; l’essere umano fu cacciato dall’Olimpo, conobbe le malattie, la vecchiaia, la morte a causa sua. Prometeo, il titano che aiutò gli dei contro i sui fratelli, fu condannato a soffrire per l’eternità.

Il mito venne interpretato, le versioni sono molteplici, anche ai nostri giorni la figura di Prometeo ha un suo significato:

La lotta prometeica è ancora oggi simbolo di un’opposizione morale alla tirannide e di una sfida – che deve essere portata avanti anche se destinata al fallimento – verso ogni imposizione reazionaria.[2]

Prometeo non è più il grande creatore dell’uomo, non è più il suo salvatore

Percy Bysshe Shelley vide in Prometeo l’incarnazione degli ideali romantici, al titano dedicò un’opera: Prometheus Unbound.

The only imaginary being resembling in any degree Prometheus, is Satan; and Prometheus is, in my judgement, a more poetical character than Satan, because, in addition to courage, and majesty, and firm and patient opposition to omnipotent force, he is susceptible of being described as exempt from the taints of ambition, envy, revenge, and a desire for personal aggrandisement […] But Prometheus is, as it were, the type of the highest perfection of moral and intellectual nature, impelled by the purest and the truest motives to the best and noblest ends.[3]

Settantanove anni dopo l’opera di Shelley venne pubblicato Le Prométhée mal enchainé di André Gide.

Gide fu uno scrittore surrealista francese, vincitore del premio Nobel nel 1947. Amico di Oscar Wilde, in quest’opera ne subì l’influenza, sua e dei racconti filosofici settecenteschi.

Con arguzia lo scrittore traspone il mito nella realtà parigina di fine secolo. Prometeo non è più il grande creatore dell’uomo, non è più il suo salvatore e l’aquila non è più una pena imposta ma la coscienza; il tormento non è più dovuto al furto del fuoco ma è legato alla natura della coscienza stessa: il mito viene scomposto.

La coscienza viene metaforizzata nell’aquila nutrita e torturatrice. Mentre nel ritratto-documento-denuncia di Dorian Gray (1980) Wilde aveva proposto ciò che di una coscienza è fissato esteriormente, Gide, invece, ‒ forse sospinto dalla propria componente ugonotta ‒, pone nella carne del possessore dell’aquila-coscienza il rodimento, che comunque non occulta la propria origine interiore, intima, morale.[4]

La vicenda ruota attorno a Prometeo che, ritrovatosi all’Opéra si ferma in un caffè.

Quand, du haut du Caucase, Prométhée eut bien éprouvé queles chaînes, tenons, camisoles, parapets et autres scrupules, somme toute, l’ankylosaient, pour changer de pose il se souleva du côté gauche, étira son bras droit et, entre quatre et cinq heures d’automne, descendit le boulevard qui mène de la Madeleine à l’Opéra.[5]

Qui il protagonista viene introdotto a Damocle e Coclide. I due raccontano le loro storie, scoprendo che nonostante siano sconosciuti esse sono legate: Damocle aveva ricevuto una busta contenente una banconota da cinquecento franchi e, non sapendo chi fosse il mittente e il motivo per cui fosse stata spedita, aveva pensato ad un errore. Si era ritrovato così eroso dalla coscienza, incapace di spendere il denaro.

Coclide era stato fermato per strada, un signore gli aveva porto il fazzoletto che gli era caduto, e gli aveva poi consegnato una busta dicendogli di scrivere un nome ed un indirizzo casuali. Coclide dopo aver scritto l’indirizzo era stato schiaffeggiato. La storia si sposta su Prometeo, che, accusato di aver fabbricato abusivamente fiammiferi era stato imprigionato. È proprio in carcere che Prometeo era venuto in contatto con la sua coscienza: se inizialmente l’aquila era spelacchiata, parlandoci e nutrendola con il suo fegato l’animale si rinvigoriva tanto quanto Prometeo si indeboliva.

Ça! un agile! Allons donc! – regardez-le ce pauvre oiseau râpé! Ça… un aigle! Allons donc! tout au plus une conscience.[6]

Prometeo una volta trasportato dall’aquila fuori dalla prigione aveva deciso di tenere un discorso affermando

«Premier point: il fault avoir un aigle.

«Deuxième point: D’ailleurs, nouns en avons tous un.[7]

È la coscienza la chiave di volta dell’opera ed è proprio attorno ad essa che ruota il discorso di Prometeo. Durante la narrazione si scopre che è stato proprio lui a creare l’essere umano, a donargli l’intelletto ed il fuoco. Nel corso dei secoli la felicità dell’uomo scema e nasce così l’aquila. Prometeo si rende conto di amare l’aquila e non più l’essere umano.

Le bonheur de l’homme décrut, décrut, et ce me fut égal: l’aigle était né. Je n’aimais plus les hommes, c’était ce qui vivait d’eux que j’aimais. C’en était fait pour moi d’une humanité sans histoire… L’histoire de l’homme,c’est l’histoire des aigles, Messieurs.[8]

La vicenda si conclude dimostrando come si può affrontare la coscienza: Prometeo ritorna pasciuto, ha infatti ucciso e mangiato la sua aquila; Damocle invece muore, eroso dalla coscienza, di rétrécissement de la colonne alludendo alla figura di Coclide.

L’opera è intrisa di simbolismo, i nomi classicheggianti oltre a richiamare il mito ne diventano parodia (del mito o del significato a loro attribuiti). Gli ambienti anticipano la corrente surrealista giustapponendo sogno e realtà: la prigione è sia luogo fisico che mentale.

Gide fu per tutta la sua vita tormentato dalla coscienza, non la uccise come Prometeo, non fu sopraffatto da essa come Damocle ma resisté come Coclide.

«Il n’aura donc servi à rien?» demanda-t-on. «Ne dites donc pas cela, Coclès! Sa chair nous a nourris. Quand je l’interrogeais, il ne répondait rien… Mais je le mange sans rancune: s’il m’eût fait moins souffrir il eûté témoins gras; moins gras il eûté témoins délectable.» «De sa beauté d’hier, que reste-t-il?» «J’en ai gardé toutes les plumes.»[9]

[1] Eschilo, Prometeo incatenato, trad. it. di E. Mandruzzato, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, Carlo Diano (a cura di), Sansoni editore, Firenze 1980, p. 86.

[2] Treccani

[3] Percy Bysshe Shelley, Opere, Mondadori, Cles 2018, p.444

[4] André Gide, Prometeo male incatenato, La Vita Felice, Milano 2012, p.7

[5] Quando, dall’alto del Caucaso, Prometeo si convinse che catene, incastri, camicie di forza, barriere e altri scrupoli, tutto sommato, lo anchilosavano, per cambiar posizione si sollevò dal lato sinistro, stese il braccio destro e, fra le quattro e le cinque di un giorno d’autunno, percorse il viale che porta dalla Madeleine all’Opéra.

Ivi, p.14

[6] Un’aquila! Ma andiamo! Ma guardate un po’ quel povero uccello spennacchiato! Questo… un’aquila! Ma andiamo! Tutt’al più una coscienza.

Ivi, p.44

[7] <<Punto primo: bisogna avere un’aquila.

<<Punto secondo: del resto, ce l’abbiamo tutti.

Ivi, p.64

[8] La felicità dell’uomo scemò, scemò e questo mi lasciò indifferente: era nata l’aquila. Non erano più gli umani che amavo, ma amavo ciò che di essi viveva. Era finita per me l’umanità senza storia… La storia degli uomini, signori, è la storia delle aquile.

Ivi, p.72

[9] <<Non è dunque servita a niente?>> chiesero. <<Suvvia, Coclide, non dica questo! La sua carne ci ha nutriti. Quando l’interrogavo, non rispondeva… Ma la mangio senza rancore: se mi avesse fatto soffrire meno, sarebbe stata meno grassa; meno grassa sarebbe stata meno squisita.>> <<Che cosa rimane della sua bellezza di ieri?>> <<Ne ho conservato tutte le penne.>>

Ivi, p.120