Popov, Duško Popov

Nome in codice Tricycle

Marco Montagnin
Letteratura

Voi avete troppi stemmi sulla vostra bandiera. Ma per il vostro lavoro è l’ideale

Che Bond, James Bond, sia morto definitivamente è un dato di fatto. Possiamo finalmente lasciarci alle spalle un personaggio che ha subito, nel corso degli anni, un decadente processo involutivo. Che sia stata una decisione presa per salvaguardare lo spettatore medio od un accorto suicidio della EON productions il risultato non cambia: è la fine di un’era già conclusa da tempo, quella del fascino e della seduzione, del fumo e dell’alcol, in cui era lecito non scendere a patti con un popolo che ha fatto dell’Aurea Mediocritas e dello ‘spensiero’ ‒ per citare la Neolingua di George Orwell alla quale il nostro linguaggio va sempre più assomigliando ‒ il suo motivo d’essere.

Del nuovo Bond nessuno sentiva certo l’impellente bisogno, specialmente di una sua versione femminile ‒ alla quale, perlomeno, hanno risparmiato il nome ‘Jamesina’. Tra i vari tentativi di rianimazione, per prima cosa si cercò di riavvicinare il personaggio cinematografico a quello letterario; si tratta, certo, di libri scritti da autori diversi, di film interpretati da attori diversi e, ovviamente, ognuno vi inserì la sua peculiare sfumatura. Quali fossero l’idea e lo stile originali ormai non lo ricorda quasi nessuno. Successivamente, negli ultimi film, i tratti più iconici del celebre agente segreto vennero eliminati in modo subdolo, un po’ per volta, cosicché nessuno ci facesse troppo caso. I film persero il fascino che ne costituiva l’essenza, e divennero delle mere pellicole d’azione. Ora, a lavoro compiuto, quando ormai James Bond è nella tomba – e sperando che non venga più, inopportunamente, resuscitato – potrebbe essere interessante raccontare come sia, in origine, venuto al mondo.

James Bond fu Dušan “Duško” Popov; o meglio fu Duško ad essere Bond.

Mi è stato detto che Ian Fleming ha dichiarato di essersi ispirato in una certa misura, nella creazione del suo personaggio James Bond, a me e alle mie avventure. Può darsi. Ma sinceramente dubito che un Bond in carne e ossa sarebbe sopravvissuto più di quarantotto ore come agente segreto.[1]

Duško nacque nell’allora regno di Jugoslavia, in una ricca famiglia serba, e passò la sua infanzia a Dubrovnik. Successivamente si istruì nelle migliori scuole europee, in Francia ed Inghilterra, si laureò in legge a Belgrado e decise di iscriversi all’università di Friburgo per il dottorato.

Fu proprio a Friburgo che tutto ebbe inizio: uno spensierato ragazzo di buona famiglia, che conduceva una vita agiata e frivola tra alcool, donne, macchine ed una giusta dose di sport ‒ un giovane, insomma, che aveva fatto sua la bandiera dell’edonismo ‒ entrò in contatto con il regime hitleriano prebellico del 1936.

Aveva deciso, come molti altri, di recarsi in Germania per l’influenza economica e culturale che essa deteneva nell’Europa sudorientale.

Quanto alla politica ero disinformato, o poco più. I nazisti erano al potere da circa quattro anni e, sebbene provassi un senso di repulsione nei loro confronti, avevo deciso comunque di studiare in Germania. Mi sembrava che i benefici superassero gli svantaggi.[2]

 Una volta arrivato capì di essere stato ingenuo, e che il regime era molto più opprimente di quanto avesse pensato inizialmente: i professori non graditi e quelli di origine ebraica erano stati eliminati dalle scuole e dalle università, ai negozi erano affissi i cartelli: “Betreten für Hunde und Juden verboten”, all’università erano incoraggiati i duelli tra studenti e i club organizzati erano di due tipi, quelli per i tedeschi e quelli per gli stranieri; in questi ultimi i tedeschi conducevano un’opera di convincimento, cercando di influenzare le idee degli stranieri e di farli aderire all’ ideologia nazista. Duško, sicuro di sé e grazie alle sue influenti conoscenze in patria e presso i nuovi amici tedeschi, continuò il suo stile di vita senza limitare la sua libertà, senza aderire agli opprimenti e limitanti ideali nazisti. Dopo aver conseguito il dottorato, fu però arrestato dalla Geheime Staatspolizei. Venne interrogato per otto giorni senza quasi avere la possibilità di riposarsi, ma senza l’uso di torture o violenze fisiche.

Il suo rilascio fu possibile grazie all’interessamento di Johann Jebsen, amico di Duško; provvidenziale la sua telefonata al padre di quest’ultimo che, informato dell’arresto del figlio, fece pressione sul primo ministro jugoslavo per chiederne la scarcerazione.

Jebsen divenne in seguito la più grande ispirazione nella vita di Duško. Era figlio orfano di una ricca famiglia di armatori di Amburgo, bellissimo d’aspetto (secondo i canoni nordeuropei dell’epoca), completava la sua naturale avvenenza con l’eleganza d’altri tempi: l’ombrello perennemente al fianco e un monocolo che dichiarava la sua fiera appartenenza alla stirpe germanica.

A questo aggiungeva una brillante intelligenza e un fascino magnetico: riusciva ad ammaliare chiunque e la sua freddezza, emotiva ed intellettuale, era disarmante. Disprezzava i nazisti, eppure divenne un membro importante dell’Abwehr; li tradì, ma non tradì mai il popolo tedesco. Aveva compreso di potere essere utile nel tentativo salvare il resto del mondo dalla minaccia nazista, ma non si illuse mai di potere salvare la Germania stessa.

Duško entrò a far parte dell’Abwehr proprio grazie a Jebsen e, sempre dietro suo implicito consiglio, contattò i britannici per diventare un loro agente infiltrato fra le file naziste; entrò a far parte dell’MI5, nella sezione del Comitato XX.

Divenne ben presto la migliore spia per entrambi i fronti, nonostante ai tedeschi passasse spesso informazioni false, parzialmente vere o vere ma di nessuna importanza tramite le cosiddette operazioni ‘civetta’ che avevano lo scopo di attirare il nemico verso un obbiettivo falso. In questo modo sventò una serie di accadimenti che avrebbero potuto cambiare il risultato finale della guerra. Tra le altre, fu uno dei maggiori responsabili del fallimento dell’operazione Sea Lion: i tedeschi erano pronti ad invadere l’Inghilterra, che non aveva speranze di resistere all’assalto, ma le informazioni riportate da Duško la ritardarono fino a renderla irrealizzabile. Fu sempre grazie ai suoi sforzi che venne ritardata l’Operazione Barbarossa, in seguito alla sua falsa segnalazione di un possibile sbarco in Grecia degli Inglesi. Ebbe un ruolo anche nella riuscita del celebre D-Day, quando indirizzò i tedeschi verso un falso punto di sbarco nelle coste francesi. Lo stesso fece in Sicilia: annunciò lo sbarco ma indicò la costa sbagliata; nonostante tutto riuscì ad essere la più importante spia per i tedeschi, ovviamente per gli inglesi fu fondamentale, riuscì a formare una vasta rete di spie doppie, fedeli agli inglesi. Fondamentale per la buona riuscita delle sue operazioni fu la sua capacità di farsi credere la migliore spia tedesca in campo nemico; occupando tale posizione, riuscì a creare una vasta rete di spie che, come lui, operava segretamente per gli alleati.

Oltre a sabotare le operazioni militari dell’asse, il suo contributo fu importante anche per la decrittazione dei codici militari – di cui possedeva la chiave cifrata – per lo spionaggio degli armamenti, e per dare conferma agli inglesi che gli scienziati tedeschi non sarebbero riusciti a sviluppare in tempo gli ordigni nucleari. Informò anche gli alleati che i tedeschi utilizzavano il micropunto per scambiarsi informazioni sensibili.

Singolare fu il suo viaggio negli Stati Uniti, ufficialmente per istituire una rete di spie tedesche oltre oceano, ma in realtà questi agenti avrebbero dovuto in segreto lavorare per gli alleati. Gli Stati uniti non avevano ancora dichiarato guerra all’asse, e la missione di Duško fu un totale fallimento – nonostante il supporto dei servizi segreti brittanici. L’F.B.I. statunitense, infatti, si cimento in una pessima gestione dell’operazione, e sicuramente pesava la sfiducia dell’organizzazione nei confronti di Duško stesso: lo ritenevano nulla più che un playboy, e rischiarono di far saltare la sua copertura e quella dell’intera rete di spie da lui gestita. Il punto di rottura definitivo con i servizi segreti statunitensi fu l’attacco di Pearl Harbour.  Duško aveva avvisato l’F.B.I. di quanto stava per accadere portando prove schiaccianti e prevedendo tempistiche e modalità di attacco. I suoi avvertimenti vennero ignorati – forse per miopia, forse perché era necessario convincere la maggioranza della popolazione circa la necessità di un intervento in Europa, e a questo scopo i servizi segreti erano disposti a sacrificare le vite dei soldati di stanza nel Pacifico.

Sta di fatto che Duško decise di tornare in Europa dove riteneva decisivo il suo contributo.

La maggior parte delle sue informazioni provenivano ancora da Jebsen che, verso la fine della guerra, venne ufficialmente reclutato dagli inglesi. La capitale dello spionaggio durante la Seconda Guerra Mondiale era Lisbona, città in cui Duško contattava Estoril, sede tedesca per lo spionaggio e controspionaggio nell’Europa occidentale.

Verso la fine della guerra Jebsen, fu catturato dalla Geheime Staatspolizei e successivamente giustiziato. Apparentemente,stava cercando di fuggire dalla complicata situazione in cui si trovava, ma in realtà non tradì mai il suo più caro amico né gli inglesi. Venne giustiziato per contrabbando di valuta: dopo l’epurazione dei grandi gerarchi nazisti, aveva operato nel contrabbando per arricchire personaggi che ricoprivano cariche importanti e avrebbero dovuto proteggerlo da eventuali contraccolpi; purtroppo, per paura, essi vennero meno al loro impegno.

Ovviamente Duško cercò in ogni modo di salvare l’amico, il mentore, colui che gli aveva cambiato la vita, che più di ogni altro aveva contribuito a far pendere le sorti della guerra in favore degli alleati – un uomo lungimirante che aveva predetto la sconfitta dell’asse, il fallimento delle campagne di Russia e d’Africa, l’impossibilità che i generali tedeschi ostili ad Hitler potessero aiutare gli alleati – ma non ebbe il tempo di farlo. L’uomo che aveva scoperto in anticipo l’attacco di Pearl Harbour ed era riuscito a inviare l’informazione fino agli Stati Uniti venne ucciso: un’anonima vittima fra milioni del regime.

La sua villa era a circa tre chilometri. La notte primaverile era eccessivamente bella, eccessivamente serena, irreale. Fuori da questo mondo. Camminavamo in silenzio, come per un tacito accordo. Ci salutammo sui gradini dell’entrata con una stretta di mano. 
Mi voltai e mi incamminai per raggiungere il mio appartamento.
«Duško!» mi chiamò Johnny. 
Lo distinguevo chiaramente a una trentina di metri di distanza. 
«Niente, volevo solo guardarti un’altra volta. Forse non ci rivedremo più. Sento che stiamo andando in due direzioni opposte». 
Mi stava parlando in tedesco. Stava per dire «Auf Wiedersehen», ma riuscì a pronunciare solo la prima sillaba. «Goodbye», disse invece in inglese.
Sono due espressioni completamente diverse. Se tu sai che non vedrai più un amico, vuoi dirgli «addio», ma è una parola difficile da pronunciare. Eppure anche «auf Wiedersehen» e «au revoir» ti si inceppano in gola.
Dissi anch’io «goodbye», grato per l’ambiguità di quest’espressione inglese.[3]

Ian Fleming, una sera, pedinò Duško che aveva con sé i soldi per la missione negli U.S.A. Quest’ultimo, accortosi di essere seguito, dopo aver riconosciuto Fleming e aver capito che stava agendo per conto proprio e non degli inglesi, decise di giocargli un brutto scherzo: entrato in un casinò scommise tutti i soldi della missione per infastidire una sua conoscenza, un lituano, che annunciava spesso: “banque ouverte”. Impallidirono tutti davanti alla somma giocata, e il casinò si scusò dicendo di non poter garantire per un giocatore ‒ il lituano non disponeva della somma necessaria alla contropartita della giocata. Duško rispose che allora non avrebbero dovuto fargli annunciare banque ouverte; Fleming capì e, nonostante lo spavento iniziale, iniziò ad ammirare quel playboy serbo che ovunque andasse riusciva sempre ad essere amato dalle donne, che da solo sembrava sbilanciare le sorti del conflitto mondiale.

 

La guerra finì più o meno come viene raccontato nei nostri libri di storia: la Germania non solo sconfitta, ma distrutta e smembrata. Eppure, sembra che alcune cose vengano sistematicamente tralasciate: ad esempio le atrocità commesse dai vincitori, come aver venduto ai sovietici un intero popolo, i cosacchi, che furono prontamente sterminati nonostante si appellassero agli Inglesi mentre l’intero mondo si voltava dall’altra parte. Allo stesso modo, si finse di non vedere e non ricordare l’importanza fondamentale che alcuni singoli individui ebbero nell’indirizzare le sorti del conflitto: questi divennero solo anonimi sacrifici, necessari certo ad impedire l’avanzata nazista, ma indegni di un perenne ricordo. Eppure il loro contributo fu determinante per proteggere il futuro e la libertà, quella libertà che, per Duško, fu sempre la cosa più importante.

«A mio parere», continuò, «voi avete troppi stemmi sulla vostra bandiera. Ma per il vostro lavoro è l’ideale».
In seguito pensai spesso a queste ultime parole, cercando di capire che cosa Menzies avesse voluto dire. Tutte le sue altre affermazioni erano calzanti, mi riconoscessi o no nella descrizione che aveva fatto di me. Ma la frase sugli stemmi e sulla bandiera lasciava aperto il campo alle supposizioni. Certo, ero stato accusato di stare politicamente da tutte le parti, con i conservatori come con i radicali. Per quanto mi riguardava, la mia bandiera era quella della libertà, ma immagino di averlo manifestato in forme diverse. Da qui i molti stemmi.
«Voi avete la stoffa per diventare un’ottima spia», riattaccò Menzies, «solo che non amate obbedire agli ordini. Ed è meglio che impariate a farlo, o sarete un’ottima spia morta».
Menzies non era certo un uomo da melodramma. Avrei dovuto tenere nella massima considerazione il suo avvertimento, anche se ciò avrebbe fatto sbiadire lo stemma della libertà sulla mia bandiera.[4]

A seguire una descrizione di Duško tratta da:Voci di Frederic Prokosch, Adelphi, Milano, pp.148-151

Di tanto in tanto arrivava al Palacio un curioso personaggio che regolarmente si fermava a cenare a un tavolino accanto al mio. Era un giovane allegro e socievole, ma bruttissimo, con una faccia da luna piena, un naso informe e vaste guance butterate. Il grigio madreperla degli occhi ricordava l’interno di un’ostrica, mentre la voce faceva pensare a un grosso gatto che facesse le fusa. Per me era sempre un piacere veder entrare Dusko Popov nella sala da pranzo.
«Lei che ne pensa, Popov? I tedeschi attraverseranno la Manica?».
Oppure: «Che cosa prevede? I tedeschi arriveranno a Mosca, Popov?».
O anche: «Mi dica, Popov. Lei crede che i cinesi entreranno in guerra?».
Gli occhi di Popov si facevano garbatamente meditativi, un grande sorriso di compiacimento gli increspava le guance e la sua voce profonda mi riempiva gli orecchi di affettuosi accenti slavi.
«Vedremo. È un rompicapo. È un enigma. Può succedere tutto».
Gli dicevo:«Lei capisce la mentalità russa, Popov?».
«È un mistero. I russi sono un indovinello. Con i russi può succedere tutto».
A poco a poco mi lasciai conquistare da Dusko Popov. La sua stessa presenza animale dava un senso di refrigerio. Non smetteva di guardarsi intorno nella sala da pranzo, con quegli occhi di madreperla in cui la scaltrezza slava si mescolava a un’ingenuità infantile.
«È pensabile, Popov, che i nazisti vincano la guerra?».
«I piatti della bilancia sono in equilibrio. È un punto interrogativo» gorgogliava Popov.
«Che opinione ha dei nazisti, Popov? Sono orribili come sembrano?».
Scrollava la testa con una smorfia: «Chi può dirlo? Sono un enigma».
Dopo cena andavamo alla casa da gioco, dove lui puntava alla roulette sotto i lampadari.
Era incredibile. Tutto quello che faceva aveva un tocco di magia. Aveva una fortuna strepitosa, ridicola, fantastica. Puntava le sue fiches sul numero 12 e, oplà, era «Douze!». Poi le puntava sul 7 e, inutile dirlo, era «Sept!». «Faites vos jeux!» diceva il croupier, e Popov si stringeva nelle spalle, raccoglieva le sue fiches con aria indolente e andava al bar.
«Sono molto infelice» gorgogliava. «Beva un brandy con me, Fritz. Vede quella bella ragazza belga con le trecce d’oro? Si rifiuta di parlare con me. Muoio dalla voglia di innamorarmi di lei. E lei mi ignora totalmente. Sono sbalordito. Sono sconcertato».
«È un rompicapo, quella ragazza» gli dicevo. «È un enigma, non è vero, Popov?».
In lui c’era il gusto dello scherzo e insieme un’elegante cerimoniosità. La concretezza solare di un contadino dalmata si accompagnava al languore umbratile di uno squisito francophile. Ma sotto quelle cangianti sfaccettature intuivo qualcosa di diverso, di più sottile e più allarmante, perfino vagamente diabolico.
Il brandy cominciò a ispirarmi riflessioni filosofiche. Dissi: «Secondo lei, Popov, nella storia dell’uomo c’è posto per una cosa come il bene e per una cosacome il male?».
Sussultò, come se l’avesse punto una zanzara.
«Il bene? Il male? Mio caro Fritz, che cosa sono mai il bene e il male? Quanto più vedo il mondo, tanto più mi domando se esistano veramente. Un terremoto è male? Il colera è male?».
«Dante» osservai «riteneva che il tradimento fosse il peggiore di tutti i mali».
La vasta faccia di Popov si apri in un sorriso lunare. «E se un uomo tradisce il diavolo? È ancora un grande male? Se un uomo tradisce Hitler – è ancora un grande male?».

 Lasciai la casa da gioco e mi spinsi fino alla spiaggia. Vidi Anibal in piedi su una roccia, bellissimo nella sua uniforme di ufficiale, con i grossi bottoni di metallo che luccicavano sotto la luna.
Gli parlai di Popov e del suo lunare scetticismo, del suo amore per le donne e della sua fortuna alla roulette. Anibal mormorò: «Non si fidi delle apparenze, amico mio. Lei conosce Estoril, immagino. Ebbene, c’è sempre qualcosa che gli occhi non vedono, qui a Estoril».
«Vuol dire che…» dissi cautamente.
«Ma certo» confermò Anibal.
«Eppure è così gioviale, così infantile».
«Esattamente» disse Anibal.
«Lei lo conosce?»«Intimamente» disse Anibal.
Come Popov, il mio amico Anibal aveva un debole per le donne, ma a differenza di Popov era aiutato da una bellezza che ricordava quella di Rodolfo Valentino. E, sempre a differenza di Popov, era costretto dalla mancanza di escudos e dalla disciplina militare a contenere i suoi aneliti amorosi.

[…]

Dissi: «È strano. Dove ha conosciuto il mio amico Popov?».
«In un’osteria di Cascais. È un uomo generoso, il suo Popov».
«Le ha offerto un bicchiere di vino?».
«Due bicchieri di vino».
«E di che cosa avete parlato?».
«Di donne. E di altre cose».
«Anche della guerra, forse?».
«Dei nostri nemici» disse Anibal.
«Dei tedeschi e degli italiani?».
«E dei russi, anche» disse Anibal. «Il suo amico Popov è gentile, generoso e anche intelligente. Mi ha raccomandato di non fidarmi di nessuno, e meno che mai dei russi».
Mi strizzò l’occhio e sputò nel mare.
Non avevo dubbi che Popov fosse una spia, ma non riuscivo a capire se fosse al servizio degli alleati o dell’Asse. Solo sei anni dopo, sotto il sole di via Veneto, appresi finalmente la straordinaria verità su Dusko Popov, conosciuto nelle alte sfere anche col nomignolo di Triciclo: lui, così gioviale, così innamorato, così incredibilmente fortunato al gioco, con quella faccia che sembrava una luna disseminata di crateri proprio lui, l’amico di Churchill e di Ribbentrop, il più grande fra tutti gli acrobati del doppio gioco nella storia dello spionaggio.

[1]Duško Popov, Spia contro spia, Sellerio, 2018, pp.207-208

[2] Ivi, pp.16-17

[3] Ivi, p.396

[4] Ivi, p.108

Ti è piaciuto l’articolo? Lascia qui la tua opinione su La Livella.

Did you enjoy the article? Leave here your feedback on La Livella.

Share on facebook
Facebook
Share on twitter
Twitter
Share on linkedin
LinkedIn
Share on email
Email