Pavese al confino

Marco Montagnin
Letteratura

A cura di Andrea Armellin

Cesare Pavese il 15 maggio 1935 fu arrestato, l’accusa: antifascismo. La conseguenza di una tale accusa fu il confino. Il 4 Agosto del 1935 Pavese arrivò a Brancaleone Calabro. Inizialmente la pena prevedeva tre anni di lontananza dall’amata Torino ma, grazie alla richiesta di condono, vi rimase solamente fino a marzo del 1936. All’inizio del 1935 era in bozza, per Solaria, la sua prima raccolta poetica: Lavorare stanca.

Durante il suo forzato soggiorno in Calabria, Pavese continuò a lavorare alle sue poesie e l’edizione fu pronta nel 1936. Fu la sua prima raccolta e risulterà unica nel suo genere e ben diversa dalle successive. Lavorare stanca racchiudeva forse le speranze di un giovane scrittore che inseguendo una propria distinzione, cercò di emergere grazie a uno stile unico: il suo. Successivamente abbandonò la poesia se non per ritorni sporadici ma ciò che fu realmente abbandonato fu il suo modo di comporre poesia: da una lirica narrativa passò ad una lirica cantata, non inferiore alla prima, ma rimase come scrisse Calvino “una voce isolata della poesia italiana” [1]  la sua rivoluzione fallì, le sue opere successive in prosa e in versi fallirono tanto che lo portarono a scrivere “Tutto questo fa schifo. / Non parole. Un gesto. Non scriverò più” [2].

Fallì dal suo punto di vista nonostante il suo ultimo romanzo vinse il premio strega ma non bastò a risollevare una vita che si era continuamente vista cadere a pezzi, dal confino in poi. Il 27 agosto 1950 Pavese si suicidò.

Durante il confino Pavese continuò a lavorare alle sue poesie. Era infatti riuscito ad ottenere un editore nonostante i dubbi di quest’ultimo (Edizione Solaria a cura di Alberto Carocci, 1936).

Perplessità dell’editore dovute ad uno stile troppo lontano dal gusto imperante dell’epoca: Ungaretti. Lavorare stanca può essere inquadrata come una raccolta di antitesi: l’antitesi di Whitman tra lavoro e vita vagabonda, l’antitesi di Augusto Monti (professore e amico di Pavese) tra il piemontese ortodosso e il piemontese sansossì.

Il titolo “Lavorare stanca” sarà appunto la versione pavesiana dell’antitesi di Augusto Monti (e di Whitman), ma senza gaiezza, con lo struggimento di chi non si integra: ragazzo nel mondo degli adulti, senza mestiere nel mondo di chi lavora, senza donna nel mondo dell’amore e delle famiglie, senza armi nel mondo delle lotte politiche cruente e dei doveri civili” [3].

Così Calvino introdusse l’opera di Pavese.

Tra le poesie di Pavese scritte tra il 1935 ed il 1936 si nota un cambiamento, il mare. La prima poesia che apre l’opera si intitola ” I mari del sud”, scritta nel novembre del 1930 e dedicata a Monti fu, insieme ad altre poesie, inviata alla rivista Solaria per una possibile pubblicazione mai avvenuta. In questa poesia il mare è mitizzato, un posto eroico, un’entità immensa ed indefinita che porta via, che restituisce, che arricchisce. È arcaico. Pavese descrive come il cugino, preso il mare venne dimenticato, considerato morto, diede sue notizie ma “se non era morto, morirebbe” [4].

Cesare Pavese fu traduttore, soprattutto americanista. Proprio questa vena d’oltreoceano si ripercuote nelle sfumature del suo mare come se fosse l’America: selvaggio, indomito ed immenso, un mare che come poteva portare profitto e così s’infrangeva in avventure come in un’opera da lui tradotta, “Moby Dick”. E’ quest’opera che compare nella poesia:

Solo un sogno gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta, da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo, e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia. Me ne accenna talvolta [5].

Il mare durante il confino divenne quello di Ogigia, Pavese cadde nel pensiero dei suoi antenati, era ancora quel mare primitivo dove donne e uomini nudi si bagnavano, era una fonte di sostentamento ma lui ne era prigioniero tanto che “Fumerò a notte buia, ignorando anche il mare” [6]. E’ così che si conclude “Terre bruciate” poesia “rimembranza” in cui l’autore ricorda con rammarico e può solamente fumare da solo, ignorando qualsiasi cosa, persino il mare.
È sempre il mare nella sua “Paternità” del 1935 che è inutile. Questa poesia rappresenta la sofferenza del poeta costretto nel paesino e solamente due suoni sente oltre allo schiamazzo degli abitanti: lo sciabordio del mare che è inutile, non può dare nulla al poeta, ed il treno, unico mezzo per tornare a Torino ma a lui vietato. “Dalla nera finestra /entra un ansito rauco, e nessuno l’ascolta /se non l’uomo che sa tutto il tedio del mare”.

“Dalla nera finestra /entra un ansito rauco, e nessuno l’ascolta /se non l’uomo che sa tutto il tedio del mare” [7]. L’inutilità, tema centrale dell’opera è presente anche nella poesia successiva ” Lo Steddazzu”; “Non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno /in cui nulla accadrà. Non c’è cosa più amara /che l’inutilità” [8]. Durante il soggiorno calabrese Pavese si trova ad affrontare una vita vuota, uguale, ripetitiva tanto che l’autore si chiese “Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci? Domani /tornerà l’alba tiepida con la diafana luce /e sarà come ieri e mai nulla accadrà” [9], è il gennaio 1936 ed è l’ultima poesia che l’autore scrive al confino. “Paternità” e “Lo Steddazzu” sono le due poesie conclusive di “Lavorare stanca”, con esse si conclude la spirale poetica dell’opera, si conclude con il rimando alla poesia omonima “Lavorare Stanca” dove l’autore si chiede se “Val la pena esser solo, per essere sempre più solo?” [10] ma l’autore sembra sapere la risposta: no la vita non vale la pena di essere vissuta da soli, senza una donna diviene inutile ” Solamente girarle, le piazze e le strade/ sono vuote. Bisogna fermare una donna/ e parlarle e deciderla a vivere insieme”[11], il poeta rimase coerente con questa idea e si uccise, mise fine 14 anni dopo alla sua inutile vita segnata da insuccessi amorosi e dalle sue opere che non riuscirono ad ottenere il successo da lui prospettato.

[1] Note generali al volume delle poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1962, p.216.

[2] C. Pavese, Il mestiere di vivere Diario 1935-1950, Einaudi, Torino 2016, p.400.

[3] Italo Calvino in Introduzione, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1962.

[4] C. Pavese, Le Poesie, Einaudi, Torino 2014, p.8. 5 Ivi, p.9.

[5] Ivi, p.61.

[6] Ivi, p.103.

[7] Ibid.

[8] Ivi, p.104.

[9] Ibid.

[10] Ivi, p.48.

[11] Ibid.

[12] “Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci? Domani /tornerà l’alba tiepida con la diafana luce /e sarà come ieri e mai nulla accadrà.” Translated by La Livella’s translator.