Parve – nec invideo – sine me, liber, ibis in Urbem
L’exsilium differentemente dal passato è ora una condanna passiva, volontaria: è un modo che il cittadino ha per salvarsi, entrando così a far parte dei migranti in senso lato. L’esiliato diventa migrante, in alcuni casi apolide, e nessuno sembra ascoltare la sofferenza che trapela dai volti contratti, dagli occhi sognanti e cupi d’un uomo che non può più tornare indietro, che ha abbandonato ogni cosa per raggiungere un concetto mutilato, parodico, di libertà. Di casi illustri nell’ultimo secolo ne troviamo in abbondanza, soprattutto durante il periodo dei totalitarismi formatisi tra i conflitti mondiali e quello immediatamente successivo.
La Relegatio in insulam (esilio sull’isola) era invece la pena che, nel diritto romano, pur consentendo di mantenere lo status di cittadino e i propri beni, imponeva a qualcuno di abbandonare una determinata località (nel caso del bando) o di essere relegato in una determinata località all’interno dello stato (in caso di confino); quest’ultima modalità fu attuata anche durante il fascismo verso alcuni intellettuali italiani, tra i quali Cesare Pavese [1] e Carlo Levi. Il confino difficilmente era permanente, anzi poteva essere revocato essendo una pena di natura più politico-esemplare che giuridica. Ricordiamo un caso famoso in epoca romana, benché oggi la storiografia metta in dubbia la sua veridicità: quello di Publio Ovidio Nasone che, nell’ottobre dell’8 d.c., fu relegato a Tomi.
Ovidio fu uno dei poeti più importanti della sua epoca, spesso male interpretata: ricordata come un’età di fioritura, l’età che portò la civiltà romana ad essere il grande impero che tutti ricordiamo, fu invece politicamente e socialmente complicata. La strategia di conquista attuata da Roma non prevedeva una sottomissione religiosa e culturale, e ciò permise un’influenza trasversale continua tra l’Urbe e i suoi territori, influenza che era sì predominante da Roma verso l’esterno ma si attuava pure viceversa. I costumi romani, il Mos maiorum tanto caro agli antenati, venne lentamente corrotto durante i secoli; corruzione a cui si opponeva una frangia della classe dirigente, gli optimates. Nonostante lo sforzo da parte dei conservatori di mantenere intatti gli antichi valori la partita era già persa: il bello, il lusso e i piaceri avevano attecchito nell’Urbe. Augusto cercò di fermare la dissoluzione romana, piegando con la forza i disobbedienti. In un clima instabile, di transizione, il giovane Ovidio, figlio di una ricca famiglia equestre, intraprese il Cursus honorum ma abbandonò presto la politica per dedicarsi alla poesia, avvicinandosi al circolo di Messalla.
In verità l’imperator sfruttò i letterati dell’epoca per promuovere la gloria di Roma e delle sue tradizioni: fu il circolo di Mecenate, del quale i principali esponenti furono Virgilio e Orazio, che celebrò il passato, gli antichi usi ed Augusto stesso; ad essi si oppose il circolo di Messalla che, nonostante la sua estraneità alle vicende politiche, contrappose all’idea della poetica imperialistica l’evasione nel sogno, e all’idea dei rigidi costumi il dolce rifugio nell’amore.
All’arcaismo etico-poetico augusteo si contrappose una nuova forma: l’elegia romana, la quale nonostante derivasse dalla tradizione ellenica portò a risultati del tutto originali.
Elegia quoque Graecos provocamus, cuius mihi tersus atque elegans maxime videtur auctor Tibullus. Sunt qui Propertium malint. Ovidius utroqu elascivior, sicut durior Gallus. [2]
L’elegia greca, caratterizzata dal distico in cui si alternano esametro e pentametro, deriva dall’élegos, un canto accompagnato dal flauto che esprimeva lutto e lamento; narra vicende d’amore mitologiche che rispecchiano quelle realmente vissute dal poeta. La poesia neoterica fece da tramite tra l’elegia greca e quella romana, ed in essa furono definiti alcuni assiomi tipici, tra cui quello della puella/domina. Il leitmotiv del servitium amoris, per il quale il poeta diviene lo schiavo della capricciosa e crudele fanciulla amata, porta il primo a vivere un’esistenza di degradazione morale e civile, dissoluta; la finzione che vive lo rende uno sfortunato soldato in quella guerra che è l’amore, e così nasce anche il motivo del militia amoris. La poesia stessa diventa strumento di corteggiamento, e si avvicina a quella alessandrina e neoterica, concepita come disciplina da praticare nei momenti privati e di disimpegno. La condizione del servitium amoris si pone come negazione del Mos maiorum, eppure i poeti, consapevoli di non potersi opporre al potere imperiale, ringraziano Augusto per avere riportato quella pace che permette loro di concedersi all’otium; inneggiano anche all’idea del matrimonio romano che viene però reinterpretato in una relazione sentimentale libera e irregolare; insieme ad esso vengono così rivisti anche i principali fondamenti dell’antico costume romano.
Ovidio fa parte della seconda generazione di poeti elegiaci: non ha vissuto le guerre civili e sembra non comprendere che la sua opposizione al regime politico vigente lo porterà ad una condanna esemplare. Il metro elegiaco conosce l’apparizione di nuove tematiche grazie alla brillante mente del giovane che, in poco tempo, diviene uno dei più influenti autori poetici della sua epoca.
Contemporaneamente alla sua piena maturità letteraria, sembra rendersi conto dell’imminente pericolo: abbandona temporaneamente l’elegia per comporre due opere: le Metamorfosi e i Fasti. Se nella prima compie un’esaltazione esplicita del principe e del suo tempo, nella seconda – interrotta dopo la condanna – narra i fatti leggendari che hanno dato origine al calendario romano. Sfortunatamente è già troppo tardi: ai suoi errori passati se n’era aggiunto uno nuovo, non più letterario, che avrebbe pesato molto nel giudizio di condanna dell’imperatore.
perdiderint cum me duo crimina, carmen et error,
alterius facti culpa silenda mihi:
nam non sum tanti, renovem ut tua vulnera, Caesar,
quem nimio plus est indoluisse semel.
altera pars superest, qua turpi carmine factus
arguor obsceni doctor adulterii. [3]
Il carmen è l’Ars amatoria, l’errore invece non fu mai chiarito. Si specula su uno scandalo che coinvolse la nipote di Agusto o sui legami del poeta con la frangia che voleva una svolta orientalizzante dell’impero. L’Ovidio ex Ponto è un uomo distrutto: Roma era al centro del mondo, Tomi era invece un luogo sperduto, aspro e selvaggio, ai confini del mondo civilizzato. Nei Tristia il poeta si rivolge alla sua cerchia di amici, anonimi, descrivendo il Ponto come una località aspra e selvaggia, gli abitanti come barbari, in una narrazione ossessiva e ripetitiva delle sue condizioni; differentemente, nelle Epistulae ex Ponto Ovidio si rivolge alla cerchia vicina all’imperatore perché interceda in suo favore, sperando in un possibile cambio di località.
Ovidio morì, solo, tra il 17 e il 18 d.c. a Tomi: nemmeno la morte di Augusto e l’ascesa di Tiberio permise il ritorno a Roma del poeta. La sua pena, giuridicamente un confino, fu in realtà un vero e proprio esilio; fu costretto a vivere tra individui estranei a lui culturalmente e fisicamente, e divenne così estraneo anche a se stesso. Perse la sua forza vitale ‒ il suo edonismo venne meno, si trasformò in una cupa ombra di ricordi ‒ e attingendo solo alla sua memoria si consumò lentamente.
Così morì uno dei più grandi poeti di sempre, sussurrando ai suoi libri di non vergognarsi, troppo spaventato da un auctoritas che, ancora oggi, impedisce, in troppi luoghi, l’esistenza del genius se non asservito ai cupi giochi umani che di divino non hanno niente. In caso contrario è costretto all’abbandono della patria, ed allora, nuovo Caino, aspetta la morte per mano del suo sangue mentre ricorda immagini vaghe che si tramutano in sogni.
Parve – nec invideo – sine me, liber, ibis in Urbem:
ei mihi, quod domino non licet ire tuo!
vade, sed incultus, qualem decet exulis esse;
infelix habitum temporis huius habe.
nec te purpureo velent vaccinia fuco
non est conveniens luctibus ille color
nec titulus minio, nec cedro charta notetur,
candida nec nigra cornua fronte geras.
felice ornent haec instrumenta libellos:
fortuna memorem te decet esse meae.
nec fragili geminae poliantur pumice frontes,
hirsutus passis ut videare comis.
neve litura rum pudeat; qui viderit illas,
de lacrimis factas sentiat esse meis.
vade, liber, verbisque meis loca grata saluta:
contingam certe quo licet illa pede.
siquis, ut in populo, nostri non inmemor illi,
siquis, qui, quid agam, forte requirat, erit:
vivere me dices, salvum tamen esse negabis;
id quoque, quod vivam, munus habere dei[4]
[2] Anche nell’elegia possiamo competere da pari a pari con i Greci: il poeta più puro ed aggraziato del genere a me pare Tibullo; ma c’è chi preferisce Properzio. Dell’uno e dell’altro più manierato è Ovidio, cosi come meno disinvolto è Gallo.
Marco Fabio Quintiliano, Institutio Oratoria, X, 1,93-95
[3] Siccome due misfatti mi perderono,
poesia ed errore, tacerò la colpa
dell’errore: non voglio nuovamente
ferirti, Cesare; è già troppo averti
per una sola volta addolorato.
Rimane la poesia: sono accusato
Per turpi carmi d’esser divenuto
Indecente maestro di adulterio.
Publio Ovidio Nasone, Canti del dolore [Tristia], Liber II, vv. 207-212, in La Lirica Latina, trad. di Enzio Cetrangolo, testo latino a fronte, Sansoni, Firenze 1983, pp. 772-773.
[4]
Andrai senza di me, piccolo libro,
a Roma, là dov’è negato andare
al tuo padrone. Va’, ma disadorno,
come al libro di un esule conviene:
l’abito indossa mesto della sorte!
Lo splendore purpureo del giacinto
non ti ricopra: quel colore ai lutti
non s’addice; né il minio adorni il titolo,
non il cedro la carta; non portare
candide corna su la fronte oscura.
Tali strumenti possono abbellire
le scritture felici: ma tu memore
sarai di mia sventura. Il frontespizio
non sarà levigato dalla fragile
pomice: irsuto apparirai, le chiome
sparse, né delle macchie arrossirai.
Chi le vedrà capisca che le ho fatte
scrivendo con le lacrime cadute.
Va’, mio libro; e saluta con le mie
parole i luoghi amati: ch’io raggiunga
col piede almeno quelli consentiti.
Se qualcuno non m’ha dimenticato,
come tra il popolo, e vorrà sapere
che cosa faccio, gli dirai ch’io vivo,
ma non bene, e ch’io viva è già la grazia
di un dio.
Publio Ovidio Nasone, Canti del dolore [Tristia], Liber I, I, 1-20, in La Lirica Latina, cit., pp. 716-717.