Non è un problema mio

Francesco Martin
Attualità

«Ero in carcere e siete venuti a trovarmi» Matteo, 25, 36.

Dare ascolto alle idee e ai suggerimenti dei propri lettori concede allo scrittore la possibilità di migliorare il proprio operato, nonché di analizzare temi di cui, magari, non si sarebbe mai occupato.
Ci sono stati segnalati due argomenti che, personalmente, ritengo molto importanti: la salute mentale ed il tema della giustizia.
Ho deciso quindi di affrontarli entrambi evidenziando il panorama normativo e giurisprudenziale vigente, anche alla luce dei recenti fatti di cronaca inerenti i suicidi negli istituti penitenziari.

Se nell’immaginario collettivo il carcere è un luogo oscuro, ostracizzato e di cui tutto sommato non si vuole parlare ed ancora di più sapere, quello che emerge nella realtà quotidiana è invece uno specchio di fragilità e problematicità, che comprende anche le malattie mentali.
La legge che disciplina l’Ordinamento Penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354), prevede le c.d. misure alternative alla detenzione (quale, a titolo di esempio, l’affidamento in prova ai servizi sociali) che, in presenza di determinati presupposti, permettono ad un soggetto condannato di scontare la pena fuori dal carcere.
Di queste, particolare interesse merita la detenzione domiciliare ordinaria, disciplinata dall’art. 47-ter O.P., introdotto con la L. 10 ottobre 1986, n. 663, che permette al condannato di espiare la pena detentiva, o residuo della stessa, non più nell’istituto penitenziario, bensì presso la propria abitazione, in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.
Tuttavia, volendo limitarsi ad una mera lettura del combinato disposto dall’art. 47-ter, comma 1, lett. C) e comma 1-ter e dagli artt. 146 e 147 c.p., tale misura potrebbe essere concessa solo ai detenuti affetti da grave infermità fisica che non siano socialmente pericolosi.
In altre parole, non emerge un preciso riferimento alle patologie psichiche.
Sul punto la Corte di cassazione [1] ed anche la Corte costituzionale [2] sono intervenute offrendo un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma.

Secondo la Cassazione il differimento facoltativo della pena, disciplinato dall’art. 147 c.p., è applicabile quando sussista o uno stato patologico del detenuto che consenta di configurare una prognosi di fine vita ravvicinata, o quando vi sia un’affezione che determini la probabilità di rilevanti conseguenze dannose per il soggetto, eliminabili o procrastinabili con cure o trattamenti non praticabili in regime intramurario, ovvero qualora ricorrano condizioni di salute talmente gravi da porre la espiazione della pena in contrasto con il senso di umanità o comunque da non consentire al condannato di partecipare consapevolmente al processo rieducativo.
La Corte costituzionale ha poi ritenuto possibile concedere la detenzione domiciliare anche nelle ipotesi di infermità psichica di gravità e consistenza tale da determinare, in caso di protrazione della detenzione inframuraria, quel supplemento di pena contrario al senso di umanità.
Si è parlato in tal senso di detenzione umanitaria, che può essere modellata dal giudice in modo da salvaguardare il fondamentale diritto alla salute della persona sottoposta ad esecuzione penale e le esigenze di difesa della collettività.

In particolare, il ragionamento della Corte evidenzia che: «Se la malattia psichica è fonte di sofferenze non meno della malattia fisica e se le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi a causa della reclusione (“la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale”), fino ad assurgere a vero e proprio trattamento inumano o degradante ovvero a trattamento contrario al senso di umanità, secondo le espressioni usate dall’art. 27 Cost., comma 3, (tra le altre, Corte EDU, II sezione, 17 novembre 2015, 2 Bamouhammad contro Belgio, p. 119, e Corte EDU, Grand Chambre, 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi, § 105), diventa necessario ripristinare un adeguato bilanciamento tra le esigenze di difesa della collettività, che deve essere protetta dalla potenziale pericolosità di chi è affetto da alcuni tipi di patologia psichiatrica, e la necessità di garantire il diritto alla salute dei detenuti (art. 32 Cost.)».

In tal senso quindi l’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione di quella della Corte costituzionale ha ritenuto di dover includere, nelle ipotesi di infermità, non solo la mera patologia fisica, ma anche quella psichica che, in taluni casi, risulta ammantata dallo stesso se non dal maggiore grado di gravità.
In tal modo si è voluto riconoscere, anche alle patologie mentali, quel grado invalidità che rende la necessità di cura del soggetto incompatibile con la permanenza all’interno dell’istituto penitenziario.
Se quindi la giurisprudenza ha voluto estendere l’ambito di applicazione di tale misura alternativa alla detenzione, l’attuale sistema carcerario risente di un’altra problematicità collegata, spesso, alla prima.
Ed invero l’attuale situazione degli istituti detentivi fornisce una visione non propriamente in linea con il principio di rieducazione della pena sancito dall’art. 27 della Costituzione, né tantomeno con quanto previsto dall’art. 3 della CEDU.
Oltre alla questione, forse più prettamente giuridica e giurisprudenziale, inerente i profili normativi di concessione della detenzione domiciliare al soggetto affetto da malattia psichica, i recenti fatti di cronaca evidenziano un costante aumento dei suicidi da parte di soggetti ivi detenuti, vuoi perché in espiazione di una pena vuoi, ed un fatto ancora più grave, perché sottoposti ad una misura cautelare e ancora in attesa di giudizio.
Le statistiche in tal senso non mentono[3]: emerge infatti che, al 12 settembre 2022, i detenuti che si sono tolti la vita sono 59 a fronte di un totale, per tutto il 2021, di 57 suicidi [4].
A togliersi la vita sono soprattutto i giovani tra i 20 e 30 anni (16 suicidi) e soggetti affetti da patologie psichiche, che non vengono adeguatamente trattate nelle strutture penitenziarie.
Si badi: non si vuole fare della mera e macabra statistica, ma tali dati non possono essere ignorati.
Quando si toglie la vita una ragazza di 27 anni o un ragazzo di 24 anni è chiaro che il sistema ha fallito.
Ha fallito perché non è riuscito ad intercettare il disagio e le problematiche che precedono tale gesto, ha fallito perché non ha attuato i principi della nostra Costituzione ed ha fallito perché non è riuscito a dare una speranza a queste persone che, pur avendo commesso un crimine, devono avere la possibilità di redimersi, rieducarsi e di inserirsi nuovamente all’interno della società.
E, lasciatemelo dire, abbiamo fallito anche noi quando pensiamo che i detenuti siano solo dei soggetti da rinchiudere in una cella per poi buttare via la chiave e che non meritino invece compassione, una parola gentile o quel minimo di conforto, anche psicologico, che ha la finalità di ricondurre un soggetto a riconoscere i propri errori e crimini e a ritornare all’interno del tessuto sociale con più consapevolezza.

Come suggerito da alcune associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti basterebbero pochi accorgimenti: la possibilità per i detenuti di poter accedere liberamente alle telefonate per sentire la voce di un parente, un amico o un affetto; oppure una maggiore presenza di uno psicologo (già presente nelle strutture, ma solo in determinati giorni ed orari) che possa segnalare tempestivamente, al personale presente, situazioni di concreto e grave pericolo.
In tal senso il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dipartimento di cui si compone il Ministero della Giustizia ‒ che ha il compito di garantire l’ordine e la sicurezza all’interno degli istituti penitenziari, lo svolgimento dei compiti inerenti all’esecuzione della misura cautelare della custodia in carcere, delle pene e delle misure di sicurezza detentive, delle misure alternative alla detenzione ‒ ha emanato delle linee guida per prevenire i suicidi.
Ogni istituto dovrà verificare che lo stato dei Piani regionali e locali di prevenzione sia in linea con il Piano nazionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti. Prevista poi una task force multidisciplinare ‒ composta da direttore, comandante, educatore, medico e psicologo ‒ con il compito di monitorare e valutare le situazioni a rischio.
Lo scopo del lavoro d’equipe è quello di individuare protocolli operativi utili a far emergere gli eventi sentinella.
All’attenzione dello staff ci saranno fatti o specifiche circostanze che possono essere la spia di un marcato disagio delle persone detenute. Segnali che possono essere intercettati dai componenti dell’Ufficio matricola, dai funzionari giuridico-pedagogici, dal personale di Polizia Penitenziaria operante nei reparti detentivi, dagli assistenti volontari, dagli insegnanti [5].
Ecco, quindi, che le questioni inerenti la giustizia, le malattie mentali e i suicidi si intrecciano e si concatenano tra di loro in una sorta di spirale laocoontica che soffoca l’attuale sistema carcerario e fornisce un quadro significativamente problematico della situazione.
La Riforma Cartabia, attualmente in corso di approvazione, prevede delle modifiche anche al sistema penitenziario e, in generale, una maggiore applicazione delle misure alternative alla detenzione lasciando il carcere come extrema ratio.
Quello che tuttavia è importante, insieme ad una concreta riforma della giustizia, è una seria presa di coscienza da parte di tutti noi dell’attuale situazione dei detenuti e delle carceri italiane; questione che non può essere ignorata, ma che deve scuotere la coscienza di ognuno di noi e che non può essere liquidata con un ‘non è un problema mio’.

Quando un detenuto si suicida non muore un criminale, ma una persona; e questo bisogna sempre tenerlo a mente.

[1] Cass. Pen., Sez. I, 22.02.2022, n. 6300; Cass. Pen., Sez. I, 12.07.2022, n. 26851.

[2] Cort. Cost., 19.04.2019, n. 99; Cort. Cost., 31.03.2021, n. 56.

[3] Si veda in tal senso il seguente link

[4] Per l’esame del tasso di suicidi nelle carceri dei singoli Stati UE si veda il seguente link

[5] P. Maciocchi, Una task force per prevenire i suicidi in carcere: ecco le linee guida, in IlSole24ore, 08.08.2022.

Illustrazione di Nicolas Magnant, portfolio 2022_eng

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