Marie Curie
Skłodowska

Michele Diego
Scienza

Maria Salomea Skłodowska fu una bambina solitaria, intransigente, immersa nella lettura, capace di sorprendere famiglia e insegnanti per le sue capacità mnemoniche. Determinata, razionale, da adolescente aderisce a “l’Università volante”, associazione clandestina che coltiva il positivismo, contro l’oppressione zarista in Polonia. A diciott’anni stringe un accordo con la sorella Bronisława: Maria lavorerà a tre ore di treno e quattro di slitta da Varsavia, come governante, così da aiutarla negli studi in medicina e lei, una volta laureata, le restituirà il favore. Così, sei anni più tardi, Maria si trasferisce dalla sorella a Parigi, studia alla Sorbona, diventa Marie Skłodowska. Nell’arco di pochi anni, vincerà assieme al marito Pierre Curie il premio Nobel per la fisica, diventerà la prima donna ad avere una cattedra da professoressa alla Sorbona, vincerà il Nobel per la chimica – tuttora è l’unica persona insignita di due Nobel in campi scientifici distinti.

La radioattività è il fenomeno per il quale un nucleo atomico emette particelle, disintegrandosi, al fine di trasmutarsi in un nucleo maggiormente stabile.
Ogni atomo è costituto da un nucleo di protoni e neutroni attorno al quale orbitano gli elettroni. I protoni del nucleo, carichi positivamente, dovrebbero respingersi elettricamente tra loro e far quindi esplodere il nucleo. Perché allora restano coesi nel nucleo? Perché, oltre alla forza elettromagnetica, esiste un’altra forza, detta forza forte, che li tieni uniti tra loro e ai neutroni. Il ruolo dei neutroni quindi è di diminuire la repulsione elettrica tra protoni e “cementarli” assieme. Quando però i neutroni o i protoni sono troppi, l’atomo è instabile e decade radioattivamente emettendo parte dei propri protoni e/o neutroni, trasformandosi così in un atomo più leggero e stabile.

Nell’arco di pochi anni, vincerà assieme al marito il premio Nobel per la fisica, diventerà la prima donna ad avere una cattedra da professoressa alla Sorbona, vincerà il Nobel per la chimica.

 

Marie Curie iniziò a dedicarsi allo studio della radioattività verso la fine dell’800, quando ancora la parola “radioattività” non era stata coniata – fu lei in seguito a proporla. Fino a quel momento Antoine H. Becquerel aveva rilevato la radioattività spontanea in un solo elemento, l’uranio. La scienziata iniziò quindi col costruire uno strumento in grado di misurare in maniera precisa la radiazione dell’uranio, sfruttando gli studi del marito Pierre. Successivamente dimostrò l’emissione di radiazioni anche da parte del torio. Quindi passò allo studio della pechblenda, un minerale ricco di uranio naturale. Assieme al marito, si accorse che alcuni campioni di pechblenda emettevano più radiazione di quanto non avrebbe fatto l’uranio puro: un nuovo elemento radioattivo doveva nascondersi all’interno del materiale.
I coniugi Curie si dedicarono all’analisi sistematica di tonnellate di pechblenda, in un laboratorio/capannone al cui fianco venne costruita un’officina allo scopo di preparare i campioni da studiare. Frantumare la pechblenda, liquefarla, filtrarla, depurarla, misurarla e analizzarla diventarono la quotidianità dei Curie, che fecero della loro vita una missione, consacrando al lavoro la totalità delle loro giornate. Grazie a questo instancabile impegno riuscirono nel 1898 a isolare il nuovo elemento, 330 volte più radioattivo dell’uranio, che chiamarono “polonio” in onore delle origini della scienziata polacca. Subito dopo, capirono che in quantità infinitesime dovesse essere presente un ulteriore elemento radioattivo, a cui diedero il nome di “radio”. Per capire lo strenuo lavoro dietro a questi studi, si pensi che in quattro anni, usando 2.8 tonnellate di pechblenda, i Curie riuscirono a ricavare in tutto 100 milligrammi di cloruro di radio.
La dedizione dei Curie, assieme alla scoperta della radioattività dell’uranio da parte di Antoine H. Becquerel, fu ricompensata nel 1903 con il premio Nobel per la fisica. Nel 1906, dopo la morte accidentale del marito, Marie Curie iniziò a insegnare alla Sorbona e due anni dopo ottenne ufficialmente la cattedra come primo professore donna dell’università parigina. Nel 1911 ottenne il secondo premio Nobel, per la chimica stavolta. Parallelamente alla carriera e nonostante la morte del marito, fu anche in grado di crescere due figlie altrettanto brillanti: la più grande, Irène, anch’essa scienziata e anch’essa, assieme al marito, vincitrice del premio Nobel per la chimica, nel 1935, per i suoi studi sulla radioattività artificiale; e Ève, scrittrice e pianista-concertista, che assieme al marito ritirò il premio Nobel per la pace insignito all’UNICEF nel 1965, organizzazione della quale era ambasciatrice in Grecia.
Ma al di là dei risultati accademici e personali di Marie Curie e della sua famiglia, i suoi studi diedero vita una vera e propria moda della radioattività.
Se pure si iniziò ad usare intelligentemente la radioattività in medicina, in particolare nei traccianti o come cura sperimentale per il cancro, è altresì vero che furono immotivatamente attribuite ai materiali radioattivi proprietà benefiche. Nacquero vere e proprie aziende (American Radium Products Company, National Radium Company, Bailey Radium Laboratories, etc.) specializzate nel commercio di gadget radioattivi, bevande radioattive, cosmetici, dentifrici, cuscini, cinghie da legare attorno alle ghiandole che si volevano stimolare (tiroide, testicoli, ovaie, etc.). Addirittura l’American Medical Association, al fine di smascherare possibili truffatori, iniziò un controllo a tappeto dei prodotti radioattivi in commercio, per eliminare dal mercato quelli che non garantissero effettivamente la radioattività promessa.
Non finì bene. Il caso di avvelenamento delle radium girls, lavoratrici della Radium Corporation che dipingevano con vernice radioattiva i quadranti di orologi luminosi, assottigliando i pennelli con le labbra, seguito dal caso di Eben Byers, industriale, golfista di successo e riconosciuto playboy che per due anni consumò boccette di una bevanda radioattiva e morì col corpo che gli cadeva letteralmente a pezzi, smorzarono gli entusiasmi circa la radioattività. Fratture spontanee di ossa e cranio, perdita di denti, collasso degli organi, ascessi cerebrali e necrosi dei tessuti sono state le più impressionanti conseguenze di un uso/abuso di sostanze radioattive nei ruggenti anni ’20.
La stessa Marie Curie aveva largamente sottovalutato l’impatto della radioattività sul corpo umano. Lei e il marito non usavano alcuna protezione di sorta nel maneggiare i campioni radioattivi che studiavano. E anzi è lei stessa a scrivere che i due restavano ammaliati ad ammirare le provette lucenti dei sali di radio che portavano con sé, nelle tasche della giacca. Lei, per altro, morì a 66 anni di anemia aplastica, malattia del sangue la cui origine è probabilmente da imputare alla radioattività assorbita dal suo corpo.
Dopo la morte, la sua casa fu trasformata nella sede della fondazione Curie, ma molti abitanti del quartiere, stando al quotidiano Le Parisien, finirono con l’ammalarsi inspiegabilmente di cancro nel corso degli anni. Le stanze furono bonificate solo nel 1991, operazione, a dire il vero, piuttosto utile nonostante il ritardo, considerato che il radio resta radioattivo per migliaia di anni. Tanto che ancora oggi gli appunti di laboratorio, i manoscritti, i ricettari di cucina e altri oggetti della scienziata polacca sono conservati in appositi contenitori piombati, apribili unicamente a patto di indossare una tuta protettiva. Lei, Marie Curie Skłodowska, assieme al marito Pierre, è sepolta al Pantheon di Parigi. E anche la sua tomba è avvolta in una camicia di piombo.

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