Lui sa che lei c’è, conoscenza tacita fondamentale per la sua intera vita, sa che l’oscurità non divora ma non sa spiegare a parole quella situazione, quel suo parlare cantando l’amore e camminando abbracciato al desiderio di Euridice.
L’inspiegabile accendersi di un dubbio che cambia tutto inesorabilmente, la danza di precisione inconsapevole delle dita su di uno strumento musicale, la postura eretta e il parlare liberamente durante un cammino deciso: azioni quotidiane, abitudini che hanno in sé fascino e mistero, automatismi che né si ricordano né si dimenticano, elementi di una particolare e fondante dimensione, l’inconscio cognitivo. Come è possibile l’esistenza di una tale dimensione?
È tutto racchiuso nello sguardo di Euridice, in quell’ultimo istante al ritmo della melodia d’amore e tristezza del suo dubbioso Orfeo.
Tremenda dimensione che abita ogni essere umano e agisce nel silenzio e nel non visibile, l’inconscio è un viaggio che ognuno intraprende ogni giorno semplicemente vivendo all’interno di se stesso, nella profondità di un ‘di più’ che si è ma che non si comprenderà mai pienamente. L’inconscio cognitivo è proprio questo ‘in più’, un’ulteriorità che disarma, come il dubbio che, nel mito, fa voltare Orfeo.
«Il poeta tracio […] osò discendere per la porta tenaria allo Stige, procedendo tra le folle lievi e i simulacri dei defunti sepolti, andò da Persefone e dal signore dello squallido regno delle ombre»[1], Disperato per l’improvvisa morte della sua amata, Orfeo decide di intraprendere un viaggio nell’oscurità per poter ricostruire la luce. Reinterpretando il mito, potremmo dire che Orfeo discende nei meandri della sua interiorità, nel suo inconscio quindi, per uscire da quel dolore, accettarlo ed acquisire una nuova consapevolezza.
Orfeo varca la soglia del suo inconscio e scopre l’esistenza di una conoscenza tacita, base della sua anima e del suo stesso corpo, inconscia non perché rimossa, ma perché mai conosciuta, un ‘di più’ silenzioso, ricco e misterioso racchiuso nello sguardo della sua Euridice. L’inconscio cognitivo a cui Orfeo va incontro è quella parte della mente che conserva informazioni a lungo termine e che, nonostante non siano accompagnate da un’esplicitazione verbale, influenzano tanto i pensieri quanto le azioni e le relazioni personali: «Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e cosciente»[2].
Il viaggio di Orfeo negli Inferi è l’immagine della discesa nelle profondità dell’animo per dialogare con un dolore sconcertante che egli esprime attraverso la musica della lira, forma della sua anima, che commuove la stessa oscurità e riesce ad aprire la porta di quel mondo interiore e radicale. Il dolore è ciò che fa scoprire ad ogni essere umano una dimensione ulteriore che lo abita nel silenzio, esso è il sentimento dell’inconscio cognitivo: come devastazione e trasformazione, paradossalmente, esso scava ogni individuo per porlo innanzi all’in più della radice dell’interiorità. Orfeo dunque si trova faccia a faccia con il suo inconscio, vaga nel buio per ritrovare lo sguardo di Euridice.
Come ogni essere umano, egli è consapevole di ciò che vuole fare e di cosa vuole ottenere pur in balia della corrente dell’inconsapevole e dell’incerto, ma quando sopraggiunge un’emozione come il dolore, che spezza in due l’animo, si accorge che quell’incerto è realtà e che quell’inconsapevole lo pervade e così inizia il viaggio negli Inferi del proprio inconscio.
Attraverso l’ascolto della musica dell’anima, ognuno scopre che in quell’oscurità vi è però qualcosa che gli appartiene, che conosce alla perfezione ma che non sa esprimere a parole: lo sguardo di Euridice, conoscenza tacita a cui fa capo quella parte dell’inconscio cognitivo, custode di preziosi elementi d’esistenza in un silenzio inesprimibile perché estremamente ricco, in più della misteriosa meraviglia della vita.
Orfeo riconosce tale mistero inesprimibile, lo riconosce la sua anima che commuove il suo stesso inconscio che gli si mostra improvvisamente benevolo: egli ottiene infatti di poter riportare alla luce lo sguardo della sua Euridice. Lui sa che lei c’è, conoscenza tacita fondamentale per la sua intera vita, sa che l’oscurità non divora ma non sa spiegare a parole quella situazione, quel suo parlare cantando l’amore e camminando abbracciato al desiderio di Euridice.
L’inconscio cognitivo è il custode di scintille d’esistenza mai dimenticate, di tutti quei sentimenti e pensieri che dirigono vita ed azioni e che le parole non possono spiegare, perché radici di ogni singola anima, insieme aria e ciò che soffoca, speranza e disperazione, vita in ogni sua sfumatura profonda.
Nel suo camminare in sospeso tra conscio e inconscio con Euridice alle spalle, però, Orfeo improvvisamente si blocca. L’oscurità gli ha ordinato di non voltarsi a cercare lo sguardo della sua amata, di fidarsi di quell’inconscio cognitivo, di abbracciare quel silenzio insopportabile ma, come risvegliato dalle luci rosse di un’automobile che sta per frenargli davanti e che fermano il canto della sua lira, Orfeo ha un dubbio che riempie la sua mente di domande: quello che sembrava inconscio si affaccia alla finestra del suo cervello pretendendo un livello cognitivo, una spiegazione legittima.
Ciò che accade ad Orfeo è quello che quotidianamente avviene in ogni singolo individuo: azioni o pensieri ci rivelano a volte qualcosa di profondo contenuto nell’anima e che, in realtà, si conosce ma non si sa spiegare, tanto che, quando si tenta di farlo, subito la mente si blocca in un dubbio, in un intreccio di consapevolezza e inconsapevolezza, in un mistero che avvolge e dona meraviglia. Quindi, davanti alla presenza di un qualcosa di inconscio che emerge alla mente ma non trova parole, come Orfeo si volge verso Euridice, allo stesso modo gli esseri umani si rivolgono alla loro interiorità, alla scoperta di quell’in più di sé inafferrabile che, non appena se ne cerca la spiegazione, scompare come Euridice. In conclusione, lo sguardo di Euridice rappresenta questo in più che costituisce gli uomini.
Lo sguardo di Euridice è ciò che sussurra nelle pieghe dell’esistenza, ciò che emerge inaspettatamente, cifra dell’inesauribile dove è racchiuso il senso che si dà nell’invisibile e che, anche se scompare, non muore mai del tutto perché è dentro ogni anima. Esso è l’inconscia consapevolezza racchiusa nei dettagli dell’esistenza, in piccoli gesti, effimeri momenti, che riprendono in mano la vita quando, ribelle, si perde nelle vie oscure dell’inconscio e a poco a poco, tacitamente e in una dimensione conscia ed inconscia, le fa scoprire che quell’in più che conosce ma non sa dire, sul quale dubita e rimugina, è l’amore che lo costituisce. Lo sguardo di Euridice è l’amore che ogni individuo ha alle spalle, quello che lo sorveglia, quello che chiunque, titubando, non appena si volterà come Orfeo, riconoscerà come l’unica cosa che non necessita di spiegazioni, che non deve apparire ma essere, poiché radice e respiro, sguardo che incontra l’esistenza, la trasforma e la fa rinascere dal dolore e dall’oscurità.
[1] Ovidio, Metamorfosi, X, 12-16, trad. G. Paduano.
[2] L.Pirandello, L’umorismo e altri saggi, Firenze, Giunti, 1994, pp.137-138.