fu una rivoluzione effimera, stroncata sul nascere perché incompatibile con il mondo
Ero un ragazzo allora, quando aprii per la prima volta quel libro: alcune immagini, alcune parole legate le une alle altre che creavano vibranti visioni indissolubili, vincolate a permanere per posteri dall’inchiostro, rimasero impresse nella mia mente. Lessi quel libro, pensando come molti, di avere capito la vita, di avere trovato un modo per vivere ‒ ma forse non lo compresi del tutto. Quel libro, sporco e ingiallito, trovato in una bancarella, era On the road.
Fu solo in seguito che mi infatuai della Beat Generation, e iniziai a recuperarne le opere, ma non tutte; solo quelle che il caso poneva tra le mie mani. Leggendole la mia idea iniziale si rivelò completamente sbagliata: non era una rivoluzione letteraria né una filosofia di vita; non era un’accozzaglia di parole, di immagini che inneggiavano al rispetto, alla libertà, al vivere la vita al massimo ‒ questa è solo la superficie.
Erano innanzitutto intellettuali, amanti di Dostoevskij, Pound, Whitman, Yeats e molti altri; erano amici che si raccontavano l’uno all’altro, sballottati dalla vita in una strada su quale non è possibile far marcia indietro, solo andare avanti senza una meta.
Sal, dobbiamo andare e non fermarci mai finché non arriviamo.
– Per andare dove, amico?
– Non lo so, ma dobbiamo andare.[1]
I loro romanzi trasudano l’amore per la letteratura e sono colmi di riferimenti, per quelli che pensano che gli scrittori Beat fossero dei rozzi parolieri, essi non sono riusciti a cogliere ogni cosa, per quelli che pensano che fosse una rivoluzione, fu una rivoluzione effimera, stroncata sul nascere perché incompatibile con il mondo, e per quelli che li ritengono profeti da quattro soldi, strampalati chiromanti, tutto al più tossici da strapazzo, loro raccontarono solo delle storie e se alcune di esse si rivelarono accurate fu soltanto perché vissero nel nostro stesso mondo.
Fu un movimento, quello Beat, che accettava tutti: ‘checche’, ‘donne sporche’, ‘negri’ e ‘maschi’; perché in fondo siamo tutti eterei, esseri di fuoco che bruciano, pazzi di vita che si trasformano in un orgasmo, in un albero che diviene foresta ed ancora torniamo esseri umani morenti nel piacere mentre esplodiamo in visioni differenti. É il colore che muta continuamente nella nostra mente frammentata, capo d’angeli, vagabondi del dharma che siedono sfiniti lungo una strada e quella strada è la vita e d’un tratto ci si desta e si inizia a correre, bruciando i tempi, correndo dritti in strade scomposte nello spazio-tempo senza una meta, partire, partire, correre, parlare per sentirsi vivi, fornicare per non sentirsi soli ma parte dell’universo, e nell’atto torniamo uno e diveniamo nessuno.
Johnny fa grandi balzi per la stanza fra i tormenti. Con un urlo che frantuma la parete di vetro si gira a braccia e gambe divaricate verso il sole nascente, mentre dall’uccello gli sprizza fuori un fiotto di sangue… come un dio di marmo bianco, precipita tra esplosioni epilettiche nelle vecchie contorsioni da Medjoub, si contorce nella merda e nell’immondizia vicino a un muro di fango sotto un sole che ferisce e fa venire la pelle d’oca… È un ragazzo che dorme contro il muro della moschea, nel sonno notturno eiacula in un migliaio di fighe rosee e lisce come conchiglie, godendosi il piacere di pungenti peli pubici che gli scivolano lungo l’uccello.[2]
Morirono uno ad’uno, distanti, soli: alcuni all’improvviso, altri dopo essere stati costretti a rimanere per ultimi. Ed ora che sono tutti morti, rimangono vividi nei loro pseudonimi, incatenati in un cerchio finito senza una fine, tramandati sotto forma di libri, corrotti, estrapolati sotto immagini di un mondo che più non gli appartiene.
[…]
I vecchi aspettano
che venga finita
che la loro gloriosa massima sulla terra
venga finita
il rintocco lento si ripete
i piccioni vanno in giro impettiti
senza nemmeno pensare a volare
nell’aria troppo greve per il greve rintocco
I neri carri funebri presi a nolo accostano
le nere limousine con le tendine nere
a schermare le vedove
le vedove con i lunghi veli neri
che seppelliranno tutti
Le avete viste
madre di terra, madre di mare
Le vedove smontano dalle limousine
Escono i familiari in lutto con i completi inamidati
Le vedove salgono lentissime
gradini della cattedrale
veletta abbassata
appoggiandosi a braccia di stoffa scura
Non sono sconvolti i loro volti
Sono solo distolti
Loro sono ancora le matriarche
che seppelliranno tutti
i vecchi maccaroni che si estinguono
nelle Little Italy di tutta l’America
i vecchi maccaroni morti
tirati in secco nel sole mattutino
che di luti se ne frega per benino
Uno a uno Anno per anno
vengono sistemati
La campana
non smette mai di rintoccare
I vecchi italiani con il viso a fasciame
sono tirati fuori dai carri funebri
da portatori prezzolati
vestiti a lutto & con gli occhiali scuri alla mafioso
I vecchi morti sono tirati in secco
nelle loro bare nere simili a barchette
Entrano nella vera chiesa
la prima volta dopo tanti anni
in quelle nere scialuppe intagliate
pronti per essere traghettati
I preti si affannano
come per mollare gli ormeggi
Gli altri vecchi
ancora vivi sulle panchine
guardano il tutto con i cappelli in testa
Li avete visti lì seduti
ad aspettare che il boccino smetta di rotolare
ad aspettare che la campana
smetta infine di rintoccare
che la campana
abbia finito il suo lento rintocco
raccontando la storia incompiuta del Paradiso
che si legge in una frase incompiuta
sulla facciata di una chiesa
che si legge sulla faccia di un pescatore
su una barca nera senza vele
al suo ultimo tragitto[3]
[1] Jack Kerouac, Sulla strada, Mondadori
[2] William Seward Burroughs, Pasto nudo, Adelphi, p.108
[3] Lawrence Ferlinghetti, Greatest poems, Mondadori, pp.187-189
[1] Jack Kerouac, Sulla strada, Mondadori
[2] William Seward Burroughs, Pasto nudo, Adelphi, p.108
[3] Lawrence Ferlinghetti, Greatest poems, Mondadori, pp.187-189