Lidia Poët e Lina Furlan

Prime in una lunga storia

Gisella Lombardi
Letteratura

Permettetemi di raccontarvi due storie: da un lato la prima donna iscritta all’Ordine degli Avvocati e, dall’altro, la prima donna a tenere un’arringa in Corte d’Assise.

Il primato, l’essere primi, è un’idea affascinante. Spesso è la cifra con cui misuriamo le conquiste. Un singolo punto, fermo nella storia, una singola persona elevata al di sopra delle altre. Sono storie più facili da raccontare, quelle dei primi. Vi è un chiaro arco, un evidente motivo per raccontarle. Raramente si nota o si sottolineano tutte le altre storie, quelle dei fallimenti, dei tentativi ripetuti più e più volte prima di portare a quel primato. Permettetemi di raccontarvi due storie: da un lato la prima donna iscritta all’Ordine degli Avvocati e, dall’altro, la prima donna a tenere un’arringa in Corte d’Assise.

 

Lidia Poët nasce a Traverse nel 1855, in una famiglia tanto benestante da venir chiamati ‘i signori della Valle’. La valle di San Martino è una piccola eccezione nel panorama nazionale: mentre l’Italia si va appena formando e l’analfabetismo dilaga, la comunità valdese, fortemente presente in quei luoghi, si prodiga per istruire i propri figli. Lidia è una bambina estremamente vivace e testarda, sempre pronta a difendere a gran voce la propria opinione. A tredici anni esprime la volontà di proseguire con la propria educazione oltre quanto era normalmente concesso alle donne. I genitori le propongono il compromesso socialmente più accettabile: il diploma da maestra. Lidia sembra accontentarsi e dopo averne conseguiti due, uno anche per insegnare le lingue apprese durante un soggiorno all’esterno, ribadisce la propria volontà. La famiglia cede e lei si impegna tanto da prendere la licenza liceale in otto mesi, per poi iscriversi alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Torino. Una novità assoluta: la legge che concedeva l’accesso all’Università anche alle donne era ancora fresca d’inchiostro. Ad accompagnarla in facoltà era il fratello Enrico, anche lui avvocato a Pinerolo dove si era spostata la famiglia. Lidia era un vera novità all’interno dell’ambiente, derisa e corteggiata in egual misura. Si laurea con una tesi sulla condizione femminile e segue poi tutto l’iter per potersi iscrivere all’Ordine degli Avvocati. È la prima donna a farlo e li coglie completamente impreparati.

Lina Furlan nasce a Venezia nel 1903. Raggiunta l’età per frequentare l’università, segue il fratello a Torino. Questi la convince a non iscriversi al corso di medicina, a suo dire frequentato da “buontemponi”. La scelta ricade quindi sul corso di giurisprudenza, prima alla facoltà di Bologna e poi a quella di Torino, che alternava con la Hochschule di Dresda dove apprende il tedesco, la letteratura e la storia dell’arte. Studiosa sì, ma anche furba. Un aneddoto per tutti: vista la caratura dei suoi professori ‒ personalità di spicco come Einaudi e Segrè ‒ sosteneva gli esami senza sedersi: i professori, sperava, avrebbero ‘tagliato corto’, impietositi dalla scena di una giovane ragazza costretta in piedi per lungo tempo. Si laurea nel 1926 e nel ‘29 sostiene gli esami da procuratore dando inizio alla propria carriera nel foro. È la prima donna ad indossare la toga avvocatizia.

Di per sé non vi erano norme che vietassero a Lidia di iscriversi all’Ordine degli avvocati ma la discussione infuriò e si risolse con grande modernità: otto voti a favore e quattro contrari. Per pochi mesi fu la prima avvocata d’Italia. Non ha ancora iniziato ad esercitare, però, che il procuratore del Re presenta subito ricorso. La diatriba legale arriva fino in Corte di Cassazione, che con poche cerimonie dà ragione al Pubblico Ministero: le donne non possono esercitare la professione: innanzitutto questa va contro il loro pudore, in secondo luogo sarebbe poco opportuno essendo una donna soggetta all’autorizzazione maritale ed infine la legge che concerne la figura dell’avocato, non specificando il sesso, implicitamente è da intendersi esclusivamente rivolta agli uomini. A nulla servono le corrette argomentazioni presentate da Lidia nei vari ricorsi: non riesce a superare i pregiudizi. Collabora quindi con il fratello, nel suo studio legale, e trova altre strade per portare avanti la propria battaglia a favore dei diritti dei più deboli: delle donne, dei fanciulli e dei carcerati. Viaggia in tutta Europa rappresentando l’Italia in vari congressi. Allo scoppio della prima guerra mondiale parte volontaria come crocerossina, e per il suo operato le sarà conferita una medaglia d’argento. Nel 1919 con l’approvazione della legge sulla capacità giuridica della donna viene finalmente abolita l’autorizzazione maritale e si aprono quindi ad esse tutte le carriere, fatta però eccezione per la magistratura. Lidia ha 64 anni, non riuscirà mai ad esercitare, ma il 20 novembre 1920 chiede comunque l’iscrizione all’Albo degli avvocati di Torino. Questa volta l’ottiene.

Spesso chiedono a Lina cosa ci faccia in tribunale e lei risponde semplicemente che la legge del 1919 ha aperto la professione alle donne. Piano piano non glielo chiedono più. In generale ha buoni rapporti con i suoi colleghi, strategicamente soprattutto con le loro madri e sorelle. Non è un’avvocata che fa grandi scenate, anzi, in modo pacato cerca sempre di presentare il lato umano dei suoi assistiti. Persuade con la forza della verità. I primi clienti erano tutti uomini, poi, lentamente, arrivano anche le donne. Sostiene molte difese d’ufficio per chi non può permettersi un avvocato. Alcuni suoi casi fanno scalpore, come la difesa di un prete il quale, erroneamente arruolato in fanteria, si era rifiutato di uccidere ed aveva disertato. Lina si appella alla legge ma soprattutto, come donna di fede, al Vangelo. Commuove tutta l’aula e il processo viene rimandato a dopo la guerra. Purtroppo, arruolato come cappellano militare, il prete morirà come aveva voluto: trasportando un ferito sulle spalle. In un altro caso una madre è ingiustamente accusata di aver aiutato il marito a commettere un omicidio. L’unico testimone della sua innocenza è il figlio minorenne: troppo piccolo per dare una testimonianza valida. Lina ottiene di poter tenere il bambino con sé durante le udiene visto che né la madre né la zia entrambe coinvolte nel processo potevano accudirlo e durante una di queste il piccolo interviene spontaneamente e dà alla madre un alibi che la scagiona. Nel 1938 Lina conosce Pitigrilli, un giornalista e personaggio scomodo che doveva scrivere su di lei un articolo per una rivista. Si sposano di nascosto, essendo lui ebreo, nel 1940. Gli anni della guerra sono molto duri, i due si devono nascondere e nel ‘43 è costretta a fuggire in Svizzera con il figlio piccolo mentre il marito è al confino. Iniziano una serie di peregrinazioni in giro per il mondo, prima a Parigi poi in America Latina. Torna in Italia solo nel 1960: si iscrive nuovamente all’Albo degli avvocati ma oramai tutto è cambiato. Con parole che oggi ci sorprendono ondanna la cosiddetta parità dei sessi e le donne giudici: sostiene che non vuole essere pari all’uomo, che preferisce tenersi i pregi e i difetti dell’essere donna, senza aggiungere quelli altrui, e ritiene che l’esser donna sia incompatibile con l’atto di accusare qualcuno. Lavorerà comunque fino al 1993. 

Torniamo per un attimo al 30 ottobre del 1929 a Torino. È il primo processo di Lina e per la prima volta una donna pronuncia un’arringa in Corte d’Assise. Difende una donna operaia, infanticida, a sua volta vittima di un padre brutale. In prima fila siede Lidia Poët. Lina ottiene l’assoluzione per la sua assistita. Alla fine, Lina e Lidia si vanno incontro e si abbracciano, felici e commosse, in quel tribunale che ha negato l’accesso a Lidia per 40 anni e dove Lina ha parlato per la prima volta, vincendo. Due primati che si susseguono e che il caso ha voluto si potessero incontrare, per gioire insieme di questa vittoria condivisa. E per me, memore  di tutte le donne che le han precedute e che spesso non han potuto vedere i frutti delle loro battaglie, più che i primati è questo loro abbraccio il vero simbolo del valore delle lotte infaticabili per la conquista di un mondo migliore.

[1] Clara Bounous, “La toga negata da Lidia Poët all’attuale realtà torinese : il cammino delle donne nelle professioni giuridiche”, Pinerolo Alzani (1997)

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