L’etica dell’hacktivismo:
il caso Wikileaks

Marta Bernardi
Attualità

Più il danno rivelato è serio ed esteso, più la fuga di notizie è moralmente giustificata, se non addirittura obbligatoria. D’altra parte, se il danno è minore e la fuga di notizie indirizzata unicamente a creare imbarazzo, allora l’azione è minormente giustificata moralmente.

 

Che si conoscano tutte le sfaccettature del caso Wikileaks o che se ne serbi un vago ricordo grazie al pandemonio scoppiato nel 2011, il personaggio di Julian Assange è certo noto ai più. Assange, famoso per aver fondato l’organizzazione mediatica digitale conosciuta come Wikileaks, è tutt’oggi detenuto nella prigione di Belmarsh, Regno Unito. A riportare sotto i riflettori la sua figura e le vicende legate ad essa è stata la richiesta di estradizione avanzata nel 2019 dagli Stati Uniti d’America sotto l’egida dell’Espionage Act. I capi d’accusa a carico di Assange sono diciotto – concentrati in accuse di cospirazione e spionaggio – e potrebbero valere un ammontare complessivo di 175 anni di galera. Tale richiesta di estradizione ha causato un gran clamore, non solo a livello mediatico ma anche a livello giuridico, visto quanto è stata rimbalzata tra appelli e rifiuti. Sembrerebbe però che dallo scorso 21 aprile, l’estradizione per il giornalista e hacker australiano sia sempre più vicina, dopo che la Corte Suprema britannica ha ufficialmente emesso l’ordine formale di estradizione, processo che potrebbe durare almeno un paio d’anni.

Al di là della faccenda in sé, la cosa veramente affascinante riguardo a tale situazione è, come spesso accade, la diversa percezione del pubblico riguardo agli avvenimenti. Effettivamente, non c’è di che stupirsi, considerato che l’hacktivismo in sé è un’attività controversa, recepita in modi molto differenti. Viene generalmente descritto – soprattutto da coloro che vi prendono parte – come un fenomeno di disobbedienza civile non violenta, differente dalle forme tradizionali di disobbedienza civile unicamente per la sua forma: avviene on-line. Invece di occupare, bloccare e transennare posizioni e luoghi di potere fisici, gli hacktivisti prendono controllo di nuove posizioni e luoghi di potere, quelli del cyberspazio. La presa di controllo avviene attraverso hacking diretti – quali l’applicazione di worms, virus o la deturpazione dei siti web – o indiretti – quali website sit-ins ed il bombardamento di e-mail. Il movente alla base di queste azioni è solitamente politico, di protesta verso un’ideologia, un’organizzazione oppure un governo.

I detrattori di questa pratica ne condannano principalmente l’anonimato, disdegnato in primis perché nel nascondere l’identità dei responsabili vengono nascosti anche i loro numeri, dato che a una persona fisica possono corrispondere più identità virtuali. Dunque, queste attività potrebbero potenzialmente essere l’espressione di gruppi radicali, le cui posizioni politiche non rappresentano affatto la volontà della maggioranza del pubblico. In secondo luogo, l’anonimato viene criticato con particolare aggressività perché rende impossibile il rendere conto delle azioni di ciascuno. Effettivamente, uno dei pilastri della democrazia odierna è la presenza di un sistema di pesi e contrappesi, per cui i potenti possono essere mantenuti sotto controllo. Spesso l’hacktivismo viene indicato come un modernissimo cane da guardia, inteso come l’ultima aggiunta al sopracitato meccanismo di pesi e contrappesi della democrazia moderna; i critici però si chiedono – non a torto – dove sia il suo di contrappeso.

Queste opinioni contrastanti possono facilmente essere rintracciate nel caso Wikileaks. Wikileaks – come suggerisce il nome – si fonda sull’attività di leaking, ovvero, in italiano, sulla divulgazione di fughe di notizie. Queste vengono pubblicate tramite un sistema che garantisce la protezione dell’identità degli informatori, mantenendoli anonimi. L’attività di leaking può essere descritta come 

…l’atto di un membro di un’organizzazione che, nel pubblico interesse, rivela informazioni sensibili sulla stessa, informazioni che coloro a capo dell’organizzazione non vogliono divulgare. […] Più il danno rivelato è serio ed esteso, più la fuga di notizie è moralmente giustificata, se non addirittura obbligatoria. D’altra parte, se il danno è minore e la fuga di notizie indirizzata unicamente a creare imbarazzo, allora l’azione è minormente giustificata moralmente. (Sorel, 2015: 398)

I sostenitori dell’organizzazione – e più in generale dell’attività di hacktivismo – rimandano spesso al concetto sopracitato. L’entità e la gravità delle informazioni rivelate – ad esempio, nel caso di specie, la prova video dell’uccisione di civili da parte dell’esercito statunitense in Iraq – giustifica il mezzo attraverso il quale le stesse sono state ottenute, fulcro delle imputazioni a carico di Assange. Per costoro le accuse contro l’australiano e la sua conseguente estradizione sono un attacco alla libertà di stampa e di parola e dunque vanno a ledere lo specifico campo dei diritti umani che riguarda per l’appunto il diritto di espressione. A ciò si aggiungono, più nel caso specifico di Assange che riguardo Wikileaks in generale, i timori per un possibile trattamento degradante e violento nei confronti dell’accusato se tale estradizione dovesse avvenire sul serio (questione che in un primo tempo aveva effettivamente contribuito a respingere formalmente la richiesta statunitense).

Per contro, le critiche che vengono mosse all’organizzazione e a chi ne fa parte riguardano parzialmente l’hacktivismo in sé e, in particolar modo, l’anonimato dei suoi membri (Assange è uno dei pochissimi volti di Wikileaks, la maggior parte dei suoi membri rimane protetta dall’anonimato). L’anonimato e la segretezza dell’organizzazione vengono criticati anche da un punto di vista giornalistico perché rendono impossibile la verifica delle fonti, cosa che invece avviene per le organizzazioni mediatiche tradizionali, e che dunque andrebbe ad inficiare la qualità e la credibilità di ciò che da essa viene pubblicato. L’altra critica che viene mossa a Wikileaks e di conseguenza ad Assange è l’aver pubblicato e-mail private e contenenti nomi e cognomi di impiegati e funzionari di vario genere, violando effettivamente la privacy di costoro e commettendo di fatto reato. 

La scelta su quale delle diverse posizioni sostenere, almeno per il momento, resta al singolo e alla sua sensibilità politico-intellettuale. Il web rimane qualcosa di largamente non controllato ed incensurato e coloro che vi sguazzano con facilità intendono fare in modo che così rimanga. Nel farlo hanno chiaramente molta più libertà e dunque potere dell’utente medio, potere che talvolta, come nel caso di Wikileaks, porta all’autoassegnarsi il ruolo di cani da guardia della società, vigilanti degni dei migliori fumetti, erti a difesa di battaglie più o meno grandi contro ciò che ritengono sbagliato o pericoloso.

[1] Thomas, J. (2001). Ethics of Hacktivism. Information Security Reading Room, 12.

[2] Sorell, T. (2015). Human rights and hacktivism: The cases of Wikileaks and Anonymous. Journal of Human Rights Practice, 7(3), 391-410.

[3] The Guardian, (2022). UK court approves extradition of Julian Assange to US. https://www.theguardian.com/media/2022/apr/20/uk-court-approves-extradition-of-julian-assange-to-us

[4] BBC, (2022). Julian Assange denied permission to appeal against extradition. https://www.bbc.com/news/uk-60743322

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