Le Confessioni, l’opera più famosa di Agostino, vescovo di Ippona, sono un testo di filosofia alquanto peculiare, sia rispetto ai precedenti che ai successivi. In questo grande esempio di arte retorica e filosofica, si mette in scena un lungo dialogo con tre personaggi: l’Agostino narrante, quello narrato e Dio, che attraverso le citazioni bibliche sembra dialogare e partecipare attivamente al cammino del pensiero.
Nei tredici libri che compongono Le Confessioni, anche la collocazione ‘spaziale’ ha un ruolo determinante. Nei primi nove ci si trova nel porto di Ostia, dove un Agostino non ancora convertito è alle prese con gli studi classici e con la sua adesione convinta al manicheismo, nei due libri seguenti lo ‘spazio’ è quello interiore della memoria, del ricordo e quindi dell’anima e dello spirito. Gli ultimi due libri, invece, con la loro esegesi dei primi capitoli della Genesi, si collocano nell’ottica dell’Universale, e quindi quella che consente il pieno dispiegamento della teoria ontologia agostiniana.
Nell’ordine del cosmo, pertanto, tutto è bene secondo la propria natura ed il proprio grado.
Agostino è sostanzialmente un neoplatonico, pur con la notazione che nella Milano del IV-V sec. d.C. non sono presenti testi originali né di Platone né di Aristotele, ma solo riassunti, commentari ed interpretazioni probabilmente di chiaro stampo plotiniano/porfiriano. Tuttavia questa sua inclinazione platonica è chiara e si manifesta soprattutto nel modo in cui egli affronta il tema della creatio ex nihilo. In effetti egli è consapevole dell’aporia logica nella quale si incorre quando si voglia sostenere che esiste un entità eterna e creatrice, che non solo crea dal nulla (e quale nulla, poiché qualcosa di eterno vi è?) ma non viene modificata in alcun modo dalla creazione stessa. La domanda è: com’è possibile che il finito, il diveniente, compaia a fianco dell’infinito, dell’eterno, senza che vi sia una qualche sostanziale modifica del primo?
Si affronti questa problematica nel suo rapporto con la spinosa questione teologica della teodicea, ossia della risposta alla domanda “unde malum?” – “da dove viene il male?”. Come si ricorderà, in Plotino la materia eterna è causa del male, in quanto la formalità perfetta promanata dall’Uno è necessitata ad unirsi con la materia, eterna ma imperfetta, indeterminata, e sostanzialmente inadeguata allo scopo. Agostino non può accettare tale posizione, poiché anche la materia è creata da Dio, e pertanto si dovrebbe ammettere che la perfezione divina stessa è creatrice dell’imperfetto, e quindi del male. La riflessione Agostiniana in questo senso sarà fondamentale per tutta la teologia, fino ai nostri giorni: Dio è sommo Bene e sommo Essere, e crea la materia che a sua volta è Essere e pertanto Bene.
Pertanto, all’interno di un sistema gerarchico come il Cosmo (ed ogni realtà finita e diveniente è strutturata necessariamente in una certa gerarchia ordinata), si manifestano diversi gradi di Essere, e quindi diversi gradi di Bene. In altre parole, se l’Essere è in identità con il Bene, allora è evidente che le cose corruttibili (‘divenienti’) sono un Essere (Bene) che perde il suo Essere (Bene) fino all’annichilimento. Il divenire, passaggio dall’Essere al non-Essere e viceversa, è pertanto il passaggio dal Bene al Male e viceversa. Quindi che cos’è il male? È lo stesso che il Nulla, ossia privazione, corruzione, scadimento dell’Essere (Bene).
Il Male è privazione di Bene – privatio boni – come il Nulla è privazione di Essere. Ecco come conciliare la problematica della molteplicità ontologia, del divenire e del male con le premesse teoriche e dogmatiche della rivelazione cristiana.
Nell’ordine del Cosmo, pertanto, tutto è bene secondo la propria natura ed il proprio grado. Agostino infatti fa notare che un cosmo che contenesse solo le cose che hanno maggior realtà (le cose più buone) sarebbe privo di quelle che hanno meno realtà, e questo lo renderebbe in sé peggiore perché mancherebbe di tutto l’essere che appartiene alle cose ‘inferiori’. Pertanto è bene anche l’esistenza dell’‘uomo malvagio’ purché si collochi – come avviene – a livello delle cose ‘inferiori’. Ma che cos’è la malvagità? Essa ha origine non in Dio ma nel “libero arbitrio”, ovvero nella possibilità di volere ciò che si potrebbe rifiutare e viceversa. Il peccato, pertanto, è un errore (deviazione) della volontà, e comporta una privazione di bene ed una corruzione dell’anima che perde essere e realtà – allo stesso modo in cui il corpo viene privato dell’anima quando muore. Pertanto, essere veramente ‘liberi’ significa essere liberi dal rischio di cadere in errore e subire una privazione di realtà. Ma ciò non è possibile che per intercessione divina, ovvero attraverso la ‘Grazia’. Anche i ‘mali’ che l’uomo subisce sono ‘beni’, poiché il loro accadere è frutto della ‘Giustizia divina’, e dalla giustizia di Dio che è somma bontà non può che derivare il Bene. In questo modo Agostino supera il Manicheismo al quale aveva aderito in gioventù.
La posizione di Agostino non risolve totalmente il problema ontologico della creatio ex nihilo – ed in tutte le sue opere si percepisce un certo imbarazzo dell’autore su questo particolare punto; tuttavia si tratta di una fondazione solida sulla quale i teologi successivi edificheranno il grande edificio teorico della teologia cristiana.
[1] Tutte le citazioni agostiniane sono tratte da: Agostino, Le Confessioni (a cura di Maria Bettetini), Einaudi, Torino 2002.