Capo, manager, CEO, lavoratore semplice, sono etichette vuote che rendono solo padroni del niente, il tutto sta invece nel riconoscersi e donarsi reciprocamente.
Max lavora in un’azienda a ritmi intensi, è abitudinario e attento ai dettagli. Dotato di un eccezionale livello cognitivo e di una prosodia unica, appare sempre come su di un’altra dimensione con uno zaino di ulteriorità di pensieri e di azioni. Il suo team di lavoro lo osserva con sospetto e, nel contempo, con ammirazione: in ogni situazione o relazione, egli sembra ‘sentire altrimenti’ e reagire in modo diverso, delicato ma dirompente.
Max appare dotato di una particolare ‘mandorla limbica’, un’amigdala ribelle che sembra funzionare esclusivamente travalicando i ‘soliti’ comandi.
In una società tecnologicamente avanzata ed umanamente fragile, formata da contesti aziendali in cui spesso si perdono i valori di identità, di comunità e l’esistenza di molteplici intelligenze dalle ricche diversità, la filosofia diviene ‘l’amigdala ribelle di Max’, l’unico strumento in grado di veicolare e orientare azioni ed emozioni in maniera ulteriore, e di riconsegnare ad ognuno il proprio ‘posto’, ovvero la sua dignità: «Si preoccupò di mettermi al mio posto e di mostrarmi a me stesso senza risparmiarmi né scoraggiarmi»[1] .
Solitamente, quando si parla di lavoro o economia vengono subito in mente parole come guadagno o successo. Qualsiasi azienda infatti gareggia nella corsa ad ostacoli del denaro e della fama per divenire la prima classificata sulla sfrenata ed avida concorrenza. Vittoria che, però, dura sempre troppo poco perché, tra investimenti e profitti, tra calcolatrici e computer, come in un circolo vizioso, la sfida riparte continuamente e la classifica torna a mutare e così, nessuna posizione permane stabile. In tale sfida aperta, dunque, ogni azienda si scopre rincorrere un qualcosa che sfugge sempre, un’arcana ‘formula magica’ per un successo duraturo. Tale incapacità di appropriarsene, tale devastante mancanza pesa sull’intera azienda, su ogni suo settore, su ogni team, su tutti i suoi membri: quegli esseri umani che, con le loro caratteristiche interiori, diversità di ‘funzionamento’ e di sfumature emotive, ne costruiscono sistemi di relazioni ed azioni e ne rappresentano la reale forza.
All’interno di questa ricerca impossibile, pur circondandosi di obiettivi incentrati su diritti umani, responsabilità e bene comune, mai pienamente raggiunti, le aziende perdono la strada dell’umanità e, il più delle volte, si ritrovano intrappolate in sabbie mobili di esistenze incapaci di azione e in mangrovie di bisogni di anime diverse, che, soffocate da codici e soldi, danno vita a crisi o relazioni conflittuali all’interno dei team. In questo modo, le singole aziende si ritrovano ogni volta senza senso. Ciò che può salvarle è quell’amigdala ribelle di Max . Occorre dunque ritrovarla, incarnarla per divenire come quello strano lavoratore: sentire ‘altrimenti’ e reagire diversamente, per tornare ad esistere e a costruire nuovi contesti lavorativi di crescita personale e collettiva.
Cosa è allora nello specifico questa ribelle amigdala e dove la si può recuperare per raggiungere il senso che rende ogni luogo di lavoro, e quindi ogni singolo individuo che lo compone, il ‘primo classificato’ nel senso di ‘unico’ perché riconosciuto nel suo valore? Chi è in realtà quel Max, quell’individuo che insegna a coniugare ed ‘illuminare’ comunità e singolarità, pensiero ed azione, emozione e ragione? Si noti che essa si presenta in Max come uno stile di vita, come una pratica esistenziale da attuare: quindi l’amigdala ribelle non va ricercata all’esterno, tra ciò che effimero, ma all’interno dei team, tra occhi umani costantemente fagocitati da numeri.
Tale ‘mandorla esistenziale’ è la filosofia. Max rappresenta ogni essere umano che, in contesti lavorativi, incontrandola come pratica e riscoprendosi grazie ad essa, la incarna e se ne fa portatore tramite un radicale e nuovo ‘sentire’ connesso ad un agire controcorrente. In tali contesti dinamici dove sono in gioco concetti di senso e da cui dipende l’intera sorte esistenziale di un’umanità alla deriva, la filosofia come business philosophy è l’amigdala delle aziende: dimensione intima e insieme comunitaria, prassi trasformativa che riconnette pensiero ed azione, intelligenze diverse e unicità d’essere. Un’azienda non è forse composta da persone che provengono da esperienze diverse, vite personali e modalità uniche di pensare ed agire e che, lì nel posto di lavoro, vengono a scontrarsi meravigliosamente? Le persone fanno l’azienda e questa, a sua volta, forma le singole persone.
La business philosophy serve nel «cambiamento di atteggiamento verso le cose attraverso la chiarficazione»[2] , a comprendere il proprio ‘posto’ e le relazioni umane in cui si è immersi e quindi, a creare nuove modalità di approcciarsi all’ambiente di lavoro secondo il punto di vista della persona: lavorare fondando ogni scelta sul valore umano. Come quella particolare struttura del cervello che veicola emozioni ed azioni, la filosofia apre ognuno a comprendere sé nell’altro, ovvero a far venire alla luce il senso posto nella prossimità.
La business philosophy, amigdala ribelle del filosofo, serve a riattivare il ‘sentimento dell’altrimenti’: la filosofia come pratica aziendale «è un comprendere che mette allo scoperto, ma non scopre, un percepire che guarda dentro le cose[…]»[3] , essa si pone tra tanti individui per allargarne gli orizzonti di senso e condurli ad un nuovo punto di vista sulla loro realtà lavorativa e sugli altri sguardi che hanno accanto ma che dimenticano, anime che funzionano diversamente ma mosse da stesse emozioni. All’interno di contesti aziendali, la filosofia conduce quindi ognuno a tornare a ‘sentire’ se stesso in ‘altre-menti’, ovvero riflettendosi negli occhi di quei tanti altri, insieme di anime e menti che, incrociandosi, danno vita ad ogni team di lavoro e che richiamano ognuno (dal manager, al segretario, fino al semplice dipendente) a risvegliarsi nella responsabilità di ciò che si fa e soprattutto di ciò che si è. Solo attraverso il ‘sentimento dell’altrimenti’ che l’amigdala aziendale suscita si possono poi ripensare obiettivi e strategie e apprendere ad intrecciare volti prima che carte e ad agire, o anzi, reagire. Reagire significa rinnovare la propria azione guidati dal ‘sentimento dell’altrimenti’: la business philosophy dà nuova vita alla dimensione interiore sottoforma di una pratica rigenerativa che richiama i singoli a riconoscersi preziosi all’interno di una comunità di altrettanti unici, dove la vera ricchezza è solo nella luce che dimenticano di avere e di poter donare. In che modo riesce a farlo? Attenzionando con cura ogni individuo all’interno della comunità al di là di categorie, ruoli, esperienze e con un approccio multifocale; deviando lo sguardo dall’inessenziale e con l’utilizzo di giochi di team finalizzati al potenziamento del fattore umano.
L’amigdala aziendale, business philosophy, ricorda ad ognuno la sua radice di inesauribile bellezza, indispensabile elemento di una realtà lavorativa in cui spendersi per ciò che si è. La filosofia in contesti lavorativi serve a far riscoprire quindi che un team non funziona compiutamente, non conduce ad un vero successo, se non riconosce ognuno come valore esistenziale. Capo, manager, CEO, lavoratore semplice, sono etichette vuote che rendono solo padroni del niente, il tutto sta invece nel riconoscersi e donarsi reciprocamente: ognuno è legato all’altro nella cura e nella responsabilità. La business philosophy è l’amigdala delle aziende, una rivoluzione di mentalità interiore ed esteriore, colei che scuote anime e corpi a sentire altri-menti e a re-agire trasformati.
[1] J.-J.Rousseau, Le confessioni, tr.it. di V. Sottile Scaduto, in J.-J. Rousseau, Opere, a cura di P.Rossi, Sansoni, Milano 1993, p.795 sgg.
[2] G. B. Achenbach, La consulenza filosofica. La consulenza come opportunità di vita, a cura di R.Soldani, Feltrinelli, Milano 2009, p. 167.
[3] Ivi, pp. 79-80.