Immagina di essere un ragazzo di vent’anni o poco più. Sei nato in uno stato dell’Africa centrale che si affaccia sul Golfo di Guinea: la Nigeria. Hai la pelle nera e nonostante questo, sebbene qualcuno lo crederebbe, non sei ancora riuscito ad abituarti al fenomeno del gas flaring, un processo ‒ fortemente inquinante per l’atmosfera ma molto praticato nel tuo stato ‒ nel quale il gas naturale estratto assieme al petrolio, dove non facilmente commerciabile, viene bruciato liberando grosse quantità di anidride carbonica. Immagina adesso di sentirti compresso, quasi al punto da mancarti l’aria, perché vivere in Nigeria significa condividere il tuo spazio vitale con altri 177 milioni di persone; attorno a te 110 milioni di persone vivono con meno di un dollaro e mezzo al giorno.
Che fare? Alcuni amici hanno lasciato il Paese per migrare in un altro Stato africano, e quasi tutti fanno lo stesso, ma tu scegli la via del nord. Così facendo, forse non lo sai, ma diventerai parte della maggior narrazione mediatica europea, una narrazione pigra per menti pigre, pressapochista, a tratti falsa e lievemente ipocrita. A nord, in Libia non trovi aiuto, ma altri uomini del tuo stesso continente, che credono d’essere migliori di te perché il loro stato è più ricco, la loro pelle più chiara, i loro rapporti con l’Europa più “stretti”, e si comportano di conseguenza. Vuoi imbarcarti per raggiungere l’Europa ma non hai abbastanza denaro per comprare un biglietto.
E la notte, calando, ti porta un nuovo consiglio perché ti accorgi che quello che reputavi essere il tuo più grande difetto, la tua pelle nera, è in realtà ciò che ti può salvare la vita.
E allora pensi, ormai ebbro di tragica ironia, “Al buio i neri non si vedono, lo sanno tutti; basta non sorridere”. Sfruttando le tenebre che ti coprono complici, ti cali nel barcone senza un biglietto valido ma con tanto, tanto coraggio. “Biglietto”, poi, è un eufemismo, perché significherebbe un viaggio con posti comodi a sedere con arrivo certo e senza rischio di perdere la vita. La tua avventura parte con una solida speranza – dopotutto ormai non ti rimane che questo ‒ ma a metà strada il carburante finisce e resti in mezzo al mare, tu con altri spettri, di bianco solo gli occhi sbarrati. Nessun sorriso. All’orizzonte qualcuno si intravede, vi dona della benzina con cui poter continuare un altro po’. Poi un guasto al motore e a quel punto sembra che la tua vita debba finire lì, in mezzo al mare, con la rabbia che ti scorre nelle vene perché hai ancora troppi battiti in corpo e troppo pochi anni per poter morire li. Ma quei suoni interiori e assordanti nel silenzio hanno avvisato i radar della nave di salvataggio e venite tutti sottratti al rollio indifferente del mare.
Quel che hai immaginato non è un racconto di fantasia, ma la vera storia del mio caro amico G., al quale sono grata per aver avuto tanta forza da intraprendere questo viaggio, per poterci oggi regalare la sua radiosa compagnia piena di sole e di tutto ciò che di meglio l’Africa ha saputo trasmettergli.
Ragionando ora in modo scevro dai coinvolgimenti emotivi, l’immigrazione è un fenomeno complesso da capire, di fronte al quale è uso dilagante adottare uno sguardo pigro che vede una banale e sufficiente ragione di spostamento nel fatto che loro sono poveri e in guerra, noi ricchi e in pace. La mente pigra incorre facilmente nel primo errore ma il migrante non è un soggetto povero; è nella quasi totalità dei casi qualcuno che proviene dalla classe media e possiede risorse economiche e culturali. I più poveri, si dice in Africa, non riuscirebbero a raggiungere neanche la capitale del loro distretto. Il famoso “aiutiamoli a casa loro”, ricorrente nel dibattito politico, se riconsiderato da questa prospettiva si tinge di risvolti che il pigro non considera. L’inizio di un ciclo di sviluppo infatti porta storicamente a nuove migrazioni. Pensiamo all’Italia del XX secolo che si trasformò da Paese di migranti a meta di immigrazioni solo in un momento di stabilizzazione ed a prosperità consolidata. In definitiva: gli aiuti all’Africa non bloccheranno le migrazioni extra-africane.
La tendenza è alla costante semplificazione di concetti e mai ci interroghiamo sulla situazione sociale, economica e politica che queste persone si lasciano alle spalle. Anche la ripetizione di frasi fatte quali “L’Africa non sta tutta in Italia” non ci rende testimoni di verità in quanto, volendo indagare i dati ufficiali, ci renderemmo conto che l’Africa si reca in Europa in minima parte e solo per necessità. Ma col cuore gli africani non lasciano mai la loro Terra e appena possibile fanno ritorno al loro Paese. Nel 2017, gli africani emigrati all’interno del loro stesso continente sono stati 19,4 milioni. Il 78,8% dei migranti restano in Africa, ed è l’Africa occidentale a registrare la maggiore migrazione a livello interno, l’89%: per loro importa la traccia intra-africana ed è quasi irrilevante la migrazione verso l’Europa che viene trattata marginalmente anche nei telegiornali locali. Risulta evidente la distanza tra la migrazione reale e quella rappresentata dalla comunicazione mediatica e percepita dall’italiano medio nella forma di grandi fiumane di africani in rotta verso di noi. Della seconda, dipinta come un fenomeno in drammatico aumento, l’asilo politico sarebbe la causa fondamentale. Gli immigrati in Italia, secondo la narrazione distorta, sarebbero principalmente africani, o proveniente dal medio oriente, maschi e musulmani. Analizzando i dossier statistici invece emerge una realtà molto diversa: l’immigrazione sarebbe stazionaria attorno ai 5 milioni di persone o poco più, e su questa le domande di asilo considerando congiuntamente richiedenti e riconosciuti sarebbero solo 350 mila. Il cinguettare dell’ignorante viene zittito dall’evidenza matematica che illustra come le domande di asilo costituirebbero meno del 7% del totale dei casi di immigrazione, non essendo evidentemente quel fenomeno dilagante e irreversibile che pare essere. Non l’Europa per la precisione, ma l’Africa subsahariana ospita il più alto numero di rifugiati e profughi al mondo, oltre 18 milioni di persone, secondo dati forniti dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Acnur). Gli immigrati inoltre non sono maschi africani musulmani come si crede, ma prevalentemente donne europee cristiane. Addirittura tra i 5 principali paesi da cui provengono i migranti non figurano nemmeno gli stati africani se non il Marocco al terzo posto dopo Romania e Albania. Per quanto riguarda le nazionalità di origine, quindi, i rumeni sono i più numerosi con 1.190.091 persone (23,1 % del totale), mentre la seconda comunità è quella albanese con 440.465 immigrati (8,6 % del totale). Altre comunità numerose sono quelle provenienti dal Marocco (416.531), dalla Cina (290.681), dall’Ucraina (237.047), dalle Filippine (167.859), dall’India (151.791), dal Bangladesh (131.967), dalla Moldavia (131.814). Infine l’Egitto con 119.513 immigrati.
Nonostante più della metà del popolo italiano ritenga che l’immigrazione sia un grave problema soprattutto ai temi dell’ordine pubblico e della sicurezza, dobbiamo prendere atto che i 2,4 milioni di occupati stranieri (10,5 % del totale dei lavoratori) producono un valore aggiunto pari a 131 miliardi, svolgendo i lavori poco qualificati, faticosi e mal retribuiti che l’italiano non vuole svolgere. Inoltre, il loro contributo previdenziale è pari a 11,9 miliardi di euro che contribuiscono a finanziare il sistema di protezione sociale dell’Italia. Per quanto ci si possa convincere del contrario, l’evidenza numerica porterà sempre ai nostri occhi la lucida verità che testimonia quanto favorevole sia la presenza di questo tipo di straniero sul territorio nazionale. Volendo invece, nonostante ciò, preferire l’idea di aiutare lo straniero a lavorare e vivere nel suo stesso territorio, degli ottimi esempi di cooperazione e volontariato arriva dalle associazioni religiose, nonché da innumerevoli fondazioni e onlus, che stanno attuando progetti molto complessi per la formazione delle classi emergenti. Sono state aperte scuole di formazione politica affiancate a progetti di autoimprenditorialità, volte a far leva sulla capacità degli autoctoni a creare proprie iniziative commerciali sul territorio. Ciò risulta fondamentale per aiutare l’Africa a raggiungere l’agognata indipendenza, soprattutto perché nel continente risulta difficile trovare la tipica occupazione di stampo occidentale (il cosiddetto “posto fisso”). I contatti con le associazioni religiose, in questo senso, stanno forse silenziosamente creando le basi per la vera crescita, rappresentando la foresta che cresce, nonostante l’albero che cade faccia sempre e comunque più rumore.
Pertanto, nello svolgere le nostre ricerche e riflessioni sul tema, chiediamoci sempre: c’è un reale interesse a rendere l’Africa un paese economicamente indipendente e progredito?
Fonte: conferenza del 17 ottobre 2017 promossa in occasione del rapporto ISPI “Out of Africa. Why people migrate”. Dossier statistico immigrazione Idos 2018