La poetica del Notturno in Dino Campana

Marco Montagnin
Letteratura

Dino Campana fu viaggiatore, pazzo, sognatore, interprete irreale della vita e cosa più importante fu poeta. Mai riconosciuto dai suoi contemporanei, abbandonato ai fumi inconsistenti della sua poesia fu apprezzato dopo la sua morte da pochi cultori della sua arte tra cui Eugenio Montale, un poeta molto distante da lui, ma con una passione simile. La musicalità del verso, certo, venne raggiunta in modo opposto: il poeta ligure con una impeccabile giustapposizione equilibrata di sillabe, rime, assonanze e allitterazioni; Campana con una disperata ed ossessiva ripetizione, con contrasti, con versi apparentemente privi di equilibrio ma con un forte impatto sonoro.

«Eppure noi non sapremmo offrire altra chiave ai nuovi lettori degli Orefici se non questa raccomandazione di cogliere allo stato nascente la musica del poeta, viva un po’ dovunque e soprattutto in quegli abbozzi di mito – il ritorno, la notte mediterranea, la figura di Michelangelo, gli sfondi del «divino primitivo, Leonardo» – dove Campana si arresta alle soglie di una porta che non s’apre, o talora s’apre per lui solo».[1]

Dino Campana fu viaggiatore, pazzo, sognatore, interprete irreale della vita e cosa più importante fu poeta.

Nacque nel 1885 a Marradi, luogo da cui tentò di fuggire per tutta la vita, luogo in cui tornò sempre. Fu dichiarato pazzo e venne internato in manicomio, scappò più volte e alla fine nel 1932 la sua evasione gli costò la vita.
Nel 1913 Campana completò il suo prosimetro: Il più lungo giorno. Il manoscritto fu consegnato a Giovanni Papini e Ardengo Soffici ma andò perduto e fu ritrovato solo sessant’anni dopo, alla morte di quest’ultimo. Il poeta si vide costretto a riscrivere a memoria l’intera opera e fu così che partorì i Canti Orfici.

Campana fu un innovativo, ma prese tutt’altra direzione rispetto ai futuristi e si rivolse al passato. Forte delle influenze europee e americane la sua poesia venne paragonata a quella di Arthur Rimbaud e Charles Baudelaire. Egli vide nel titolo il significato stesso della sua poesia, una poesia mistica, criptica, iniziatica che affonda le radici nell’antichità. L’Orfeo tradito è la figura che meglio interpreta la poesia-Euridice di Campana; il più grande musico di tutti i tempi, colui che con la sua lira piegò i mortali, le sirene e gli dei ‒ un Orfeo così diverso da quello di Pavese che solo trent’anni dopo nei suoi Dialoghi con Leucò ci presenta un personaggio totalmente opposto. Il sottotitolo Die Tragödie des letzen Germanen in Italien ‒ al di là dei vari problemi che suscitò alla pubblicazione nel periodo della Prima guerra mondiale ‒ si ricollega alla tragica morte di Orfeo, fatto a pezzi, secondo Virgilio, dalle donne dei Ciconi; così come la citazione a Walt Whitman, posta alla fine dell’opera, «They were all torn / and cover’d with / the boy’s / blood»[2] in cui si appare la conclusione tragica della vita di Orfeo e del poeta stesso.

«Chi le taciturne porte / Guarda che la Notte / Ha aperte sull’infinito?».[3]
La notte in Campana è una figura chiave, è il momento in cui lo spazio-tempo collassa e consente di intravedere nelle immagini comuni dei paesi, delle fiere le mistiche figure, le opere d’arte che giustappone così abilmente nelle sue visioni poetiche. La notte è la madre progenitrice, una prostituta- Regina dantesca, la poesia è la figlia, composta da parti diverse, è una chimera, animale leggendario e sogno.
LA CHIMERA è altresì un proemio dionisiaco, un inno alla notte ed un’invocazione alla poesia.
La poesia è donna ma non quella stilnovista; è Suora della Gioconda, il suo sguardo non è salvifico, non svela nessun mistero anzi è l’opposto, nasconde. La poesia e la donna di Campana esistono entrambe, convivono scambiandosi d’identità nelle visioni notturne del poeta, sono multiformi, Campana non invoca le muse dei romantici ma la poesia stessa come Baudelaire.

È la notte il momento migliore per l’artista, come ci suggerisce Novalis nei suoi Inni alla notte: i contorni definiti si sbiadiscono, tremolano e si trasformano; il poeta è notturno, tenta di carpire inutilmente l’infinito della notte e non può che sottomettersi alla poesia.
«Non so», così l’autore apre il testo, e lo ripete successivamente ai versi 21 e 24 indicandoci l’ineffabilità della poesia, del sogno; ed è proprio la chimera che esprime al meglio l’ambiguità della poesia. La notte in Campana ha la stessa valenza della siepe in Leopardi: «E questa siepe, che da tanta parte / Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude»;[4] ma con una grande differenza: per il poeta di Recanati ha valenza positiva ‒ «E il naufragar m’è dolce in questo mare»[5] ‒ mentre per l’autore dei Canti Orfici la notte è incertezza, è turbamento.
Nella chiusura il proemio si trasforma, è mutevole come la poesia stessa, da invocazione diventa evocazione: «Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti / E l’immobilità dei firmamenti / E i gonfii rivi che vanno piangenti / E l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti / E ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correnti / E ancora ti chiamo ti chiamo Chimera».[6]
La poesia è ora invocata.

In GIARDINO AUTUNNALE (Firenze) il poeta raffigura il Boboli morente. In autunno tutto scompare, il fiume, i colori, la natura si spegne, con il tramonto tutto si colora di sangue. In lontananza si sente il rumore dell’Arno, il profumo dell’alloro raggiunge il poeta e all’improvviso compare la poesia: «Ella m’appar, presente».[7] Egli viene travolto dalla poesia, non può controllarla è lei che lo controlla, è presente ma non può che essere un istante.
È proprio in LA SPERANZA (sul torrente notturno) che le paure del poeta si rilevano corrette: «Chinan l’ore: col sogno vanito / China la pallida Sorte . . . . / . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . / Per l’amor dei poeti, porte / Aperte de la morte / Su l’infinito! / Per l’amor dei poeti / Principessa il mio sogno vanito / Nei gorghi de la Sorte!».[8]
La poesia è svanita, così com’era arrivata, senza preavviso, come Campana, voce solitaria della poesia italiana, dal forte accento simbolista, se ne andò silenziosamente.
«Con Lei che non è nata eppure è morta / E mi ha lasciato il cuore senz’amore: / Eppure il cuore porta nel dolore: / Lasciando il cuore mio di porta in porta».[9]

 

[1] D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, Einaudi, Cles 2014, p. V

[2] Ivi, p. 134

[3] Ivi, p. 28

[4] G. Leopardi, Canti, B.U.R., Trebaseleghe 2011, p. 268
Ivi, p. 274

[5] Ivi, p. 274

[6] D. Campana, Canti Orfici e altre poesie, Einaudi, Cles 2014, pp. 25-26

[7] Ivi, p. 27

[8] Ivi, p. 28

[9] Ivi, p. 32