«Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?»
La questione inerente al genere, balzata agli onori delle cronache (è proprio di alcune settimane fa la notizia che è stato proposto nuovamente al Senato il Disegno di legge “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, c.d. DDLZAN) specialmente negli ultimi anni per le più diverse ragioni, ha trovato spazio anche nelle aule di giustizia.
Di particolare interesse è il rapporto tra l’identità di genere, i profili di possibile discriminazione e persecuzione nonché tutti i corollari legati alla fase dell’esecuzione della pena.
Su questi elementi, di primaria importanza, è stata investita di recente la Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla conformità di un ordine di espulsione emesso dal Magistrato di Sorveglianza, quale organo competente per i soggetti extracomunitari detenuti che debbano essere espulsi dallo Stato, e poi appellato dall’interessato avanti al Tribunale di Sorveglianza.
In particolare, il ricorrente aveva evidenziato che la sua condizione di transgender lo avrebbe sottoposto a persecuzioni nel Paese d’origine, con la conseguenza che l’ordine di espulsione doveva essere annullato.
Nella motivazione di rigetto adotta dal Tribunale, viene evidenziato che non sussisterebbe alcuna delle cause ostative previste dall’art. 19, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 il quale stabilisce che: «In nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di orientamento sessuale, di identità di genere, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione».
Nel negare l’opposizione il Tribunale rileva che la legislazione dello Stato di origine del soggetto non contempla discriminazioni derivanti dall’orientamento sessuale del singolo individuo e che, anzi, nel 2017 è stata riaffermata, a livello normativo, la libertà delle scelte individuali.
Tuttavia, il rischio di persecuzione derivante dalla cultura omofoba diffusa in quello Stato non rientrerebbe nell’ambito applicativo dell’art. 19 D.Lgs. 286/1998, che ne presuppone il collegamento con provvedimenti normativi o sistematiche violazioni dei diritti umani da parte di autorità pubbliche e non già di singoli individui, quantunque inseriti nei ranghi delle istituzioni.
A ben vedere tale interpretazione non risulta ontologicamente errata, in quanto si basa sul testo letterale della norma che, come evidenziato, prende in considerazione, per ragioni di diritto, solamente i casi in cui sussista una legge dello Stato che ponga in essere discriminazioni o persecuzioni.
Il ragionamento effettuato dalla Suprema corte, che successivamente si esporrà nei passaggi essenziali, è caratterizzato proprio dal compito affidato esclusivamente alla stessa: la nomofilachia, cioè il compito di garantire l’osservanza della legge e la sua interpretazione uniforme.
La Corte di cassazione, nel valutare le circostanze ostative all’ordine di espulsione, effettua un richiamo ad alcune precedenti sentenze che si sono espresse con riferimento al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, che ha dato attuazione, nel diritto interno, alla direttiva 2004/83/CE – recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica del rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta.
In particolare il ragionamento della Corte, mutuando il dato normativo e da quello di alcune precedenti sentenze, evidenzia che: «In tema di protezione internazionale, il riconoscimento dello status di rifugiato o la protezione sussidiaria non possono essere negati solo perché i responsabili del danno grave per il cittadino straniero siano soggetti privati, qualora nel paese d’origine non vi sia un’autorità statale in grado di fornire a costui adeguata ed effettiva tutela, sicché costituisce dovere del giudice l’effettuazione di una verifica officiosa sull’attuale situazione di quel Paese e, quindi, sull’eventuale inutilità di una richiesta di protezione alle autorità locali».
La giurisprudenza di legittimità effettua quindi un’interpretazione non prettamente letterale dell’art. 19 D.Lgs. 286/1998, ma prende in considerazione i possibili risvolti pratici che esulano dal mero dato normativo e riguardano anche il tessuto sociale, culturale e storico nel quale il soggetto, destinatario di un provvedimento di espulsione, dovrebbe reinserirsi.
Quello che in definitiva non può essere tralasciato, e se non considerato e adeguatamente valorizzato dall’interprete comporterebbe di fatto uno svuotamento ed un travisamento delle cause ostative all’espulsione dal territorio, è che non solo un soggetto non deve essere sottoposto a persecuzione dallo Stato verso cui è espulso, mediante quindi delle norme che puniscano una sua condotta non antigiuridica, ma anche che nel medesimo territorio non deve essere oggetto di persecuzioni che derivano da comportamenti da parte dei soggetti privati, qualora non vi sia adeguata protezione da parte delle locali forze di polizia.
La Corte di cassazione quindi, annullando l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza, ha posto al centro della questione l’essere umano dando una lettura pratica e ben interpretando il proprio ruolo di custode della norma, in difetto del quale sarebbe venuta meno la ratio della stessa, cioè evitare che un soggetto sia perseguitato non solo dalla legge dello Stato, ma anche dal tessuto sociale e culturale in cui si inserisce.
Appare sempre attuale la frase di Sant’Agostino (De Civitate Dei, cap. IV, 4): «Remota itaque iustitia quid sunt regna nisi magna latrocinia?[Negata la giustizia, che cosa sarebbero gli Stati se non grandi bande di ladri?]».