Céline è un Qohélet del Novecento, che s’è gravato del peso di una volontà che tutto ha voluto conoscere. La prepotenza della morte, e la fine di tutto – nella morte. È masochistica la persecuzione che Ferdinand mette in atto contro se stesso, ed è perversa perché non può essere frenata, ma solo moltiplicata con l’irruenza del suo pensare e vivere, parlare e scrivere.
«È “un uomo tormentato dall’infinito”, intento a cercare una punizione per l’egoismo universale; uno che ne sa troppo e non ne sa abbastanza, che è “malato dalla voglia di saperne di più” […]. “È forse questo che si cerca nella vita, la più gran pena possibile, per diventare se stessi prima di morire”»[1].
Il ritmo della sua pagina, la sua petite musique, incisa sullo spartito del rovinio dell’esistenza, sembra battere un tempo forsennato, in cui il divenire, incessante, riverbera l’asfissia di una corsa senza sosta, col suo battito cardiaco accelerato, irregolare, che toglie il fiato. Rimbalza sugli spazi bianchi, tra il nero dell’inchiostro, fino a crollare in un’incurabile aritmia, sincopata, ansimante, come il cuore che martella sulle tempie poco prima d’un infarto. In questa musica risuona l’armonia della fatalità, e l’immobilità di un irresistibile panico, che spesso si piega in un’ironia caotica, che tutto avviluppa a sé.
Le sue parole e il suo esplosivo versificare fermentano durante l’esposizione al nostro bulbo oculare, incespicano e battono col ritmo forsennato d’un cuore in preda alla paura e al riso angosciato.
La verità di Céline è una pestilenza, e «la peste […] è un delirio, ed è comunicativa»[2]. Il suo narrare, «d’impronta gestuale, fa corpo con lo stesso spessore dell’ordito verbale»[3], non può che diventare sempre più un insieme lacerato di sussulti ed esclamazioni, che si contrae in un urlo senza fine, per poi disperdersi in bocconi di parole e sputi e bestemmie, gettati sulle nostre facce. I suoi romanzi, però – non dobbiamo dimenticarlo – sono imprese del linguaggio più che immagini della realtà. La verità di Céline è lo stile. La pagina rivoltante e impregnata d’odio, volgare e immonda, è il risultato raggiunto attraverso un raffinato lavoro sulla parola: «di fronte a tante accuse di rozzezza Céline sottolinea quale pazienza e delicatezza presupponga un lavoro come il suo»[4]. Ciò che ci turba, nella nostra splendente veste di lettori colti, sicuri abitanti del castello della civiltà e della cultura, non è tanto il rischio d’esser infettati dal contatto con queste pagine, quanto il dover subire, in esse, un violento squadernamento del nostro animo, che improvvisamente ci si presenta agli occhi nudo, spogliato perfino del suo amor proprio, senza riparo alcuno, nello spettacolo inquieto d’una peste che non solo è carnale e fisica, ma anche psichica e spirituale.
«L’aggressività erotica della scrittura céliniana mostra così lo scrupolo tenace, lenticolare, flauberiano della parola […] il rigore della coscienza, lo sforzo della rappresentazione totale in cui l’affermazione della vita si lascia “sporcare” e scavare dalla negazione. E del resto la narrazione non può salvarsi dalla malattia dello “style Bourget”, se non diventando scenario, linguaggio carnevalesco, dove il tragico si compie nel potere di dissociazione fisica e anarchica del riso»[5].
Le sue parole e il suo esplosivo versificare fermentano durante l’esposizione al nostro bulbo oculare, incespicano e battono col ritmo forsennato d’un cuore in preda alla paura e al riso angosciato. Fanno riemergere dai nostri abissi pensieri destinati ad essere morsi e distrutti tra le labbra e tra i denti, per sputare fuori il conflitto dalla sua fonte, incastonata in qualche oscuro anfratto dello spirito, e il frammento di luce che lì è nascosto.
L’ironia e il riso escono «dal fondo delle miserie più estreme [come] primo segnale di un ritrovato gusto di vivere»[6], emergono da un tragico gorgoglio notturno, sgorgano come amaro distillato da una disperata ricerca di serenità, di un luogo in cui i tormenti e le angustie riescano a placarsi. Si fanno carne, poi, nella «vittima della realtà che accetta di trasformarsi in giocoliere, in creatore di spettacoli, in inventore di materiale d’illusione, che balla su un deserto di rovine e di morte»[7]. Ma, instancabilmente, il forsennato dinamismo della lingua, l’aggressione vocale, il delirio delle pulsioni, l’impotenza della ragione nei confronti della vita, trascinano via, di minaccia in minaccia, Ferdinand. La sua folle quotidianità è quella di un «affamato d’anima»[8], di un medico vicino agli uomini dimenticati della periferia parigina, tra gli scarti della città, dove ogni nome proprio è un nome della sofferenza, ed è sempre sul ciglio dell’oblio e del volgare abbrutimento. Sono immersi, lui e loro, nel puzzo putrescente che esala dalle strade, e dalle bocche che li circondano, quell’alito cattivo che rivela innanzitutto la marcescenza e la corruzione che ammorbano e disfano, nell’intimo, l’uomo e i luoghi che lo ospitano. La vita nella «malattia con tutte le sue implicazioni di errori e di colpe e la morte, come termine assoluto della nostra presenza terrena, gli [hanno] straordinariamente acuito la sensibilità e infine lo [hanno] spinto a delle domande, a delle inquietudini, insomma a una forma partecipata di dolore e amore»[9].
In un universo in cui ogni parola salvifica rimane incompresa, sembra perduta, e ogni attesa trasuda sconfitta, «Céline ci evita, brutalmente, di perdere tempo, d’infettarci in una parola col collare, di allontanarci dalla verità, dalle emozioni, dalla musica, dalla vita e dalla morte. È un distruttore formidabile di stupidità, d’inutilità, di vuoto stilistico, un vendicatore furioso della parola, un autentico e veridico oracolo»[10], e lo è con il suo linguaggio pestilenziale, davanti al quale non dobbiamo difenderci, nemmeno ripararci, perché ci insegna che quando il nostro mondo sarà saturato dall’oscurità, in quell’istante, e solo in quel preciso istante, potrà accadere l’avvento di una luce davvero pura e miracolosa, di una «vita tutta perduta e salvata nell’amore infinito»[11].
[1] Céline, ovvero lo scandalo di un secolo di E. Ferrero in L.F. Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, Milano, 2017, p. 563.
[2] A. Artaud, Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino, 2000, p. 145.
[3] Introduzione di G.Guglielmi in L.F. Céline, Casse-pipe, Einaudi, Torino, 1995, p. XXIII.
[4] Prefazione di H. Godard in L.F. Céline, Trilogia del nord, Einaudi-Gallimard, Torino, 1994, p.XXXII.
[5] Introduzione di G.Guglielmi in L.F. Céline, Casse-pipe, cit., p. XXIV.
[6] Prefazione di H. Godard in L.F. Céline, Trilogia del nord, cit., p.XII.
[7] Saggio critico di C. Bo in L.F. Céline, Morte a credito, Garzanti, Milano, 2007, p. XX.
[8] Semmelweis, Céline, la morte di G. Ceronetti in L.F. Céline, Il dottor Semmelweis, Milano, Adelphi, 2016, p. 111.
[9] Saggio critico di C. Bo in L.F. Céline, Morte a credito, cit., p. IX.
[10] Semmelweis, Céline, la morte di G. Ceronetti in L.F. Céline, Il dottor Semmelweis, cit., p. 109.
[11] Ivi, p. 112.