Nel Chorus Mystius del Faust (atto V), scrive Goethe: “Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l’eterno femminino [das Ewigweibliche] ci attira in alto accanto a sé”. Iniziare a comprendere queste parole è opera che richiede più di quanto chi scrive possa dare; ma ciò che qui ci si propone è di manifestare alcune figure di quell’eterno femminino che vi compare come ultimo soggetto.
Il femminino è, innanzitutto, due volte psicopompo. Rispetto alla materia quando, nel parto, incarna le anime; rispetto al pensiero quando, in Sophia, eleva gli spiriti. ‘Sophia’ è parola antica, è saggezza e sapienza oltre l’episteme, è elevazione dell’intelletto e trasfigurazione dello spirito, è meta e delizia dell’umano. In ‘Philo–Sophia’ si unisce all’amore; questo è lo sguardo dell’amante per ciò che egli brama, è l’ascesa e il compimento. Sophia è passività attiva, è l’oggetto d’amore che trasfigura l’amore stesso.
Ma le figure del femminino si manifestano nel mondo della dualità e per ognuna di esse che cammina nella luce un’altra cammina nell’oscurità.
Sophia è anche tradizione, è porta e soglia, stipite e battente. Negli Arcani maggiori[1] la strada che conduce dal Bagatto (I) al Matto ( ) si apre con due figure del femminino.
La prima è la Papessa (II): è assisa in trono, veste un manto rosso ed azzurro, porta una duplice corona. Nella mano destra reca un libro chiuso, un libro di segreti. Sulla copertina è il Tao, il due che è quattro e il quattro che si fa uno: la dualità del mondo e delle cose, la luce e il buio, il bene e il male, il maschile e il femminile. Per aprire il libro servono le chiavi che reca nella sua mano sinistra: una d’oro che è il Sole (la Ragione, il lògos, il Verbo), una d’argento che è la Luna (l’immaginazione, la lucidità intuitiva). Alle sue spalle due colonne che, come il suo manto, sono una rossa ed una azzurra. Esse delimitano una porta coperta da un velo, come il Velo di Maya, come il velo nel Tempio di Salomone. La colonna di sinistra è rossa: è il fuoco, è l’ardore vitale, è lo Zolfo degli alchimisti (nell’uomo “è il più intimo cuore, l’ardente e centrifugo punto essenziale del suo essere”[2]). La colonna di destra è azzurra: è l’aria, è il soffio vitale, è il Mercurio dei saggi (è “la parte esteriore e centripeta dell’uomo, composta di una duplice spirale di correnti, liquide ma impregnate altresì nel fuoco di quell’interno zolfo”[3]). La Papessa apre la strada per la comprensione profonda e vera della realtà, consente di decifrare il mondo del dualismo, è l’immaginazione che supera la ragione strumentale, è la Sapienza che supera la conoscenza; è la sacerdotessa del mistero, è Iside.
La seconda è l’Imperatrice (III): anch’essa seduta ma senza trono, ha una veste rossa ed un manto azzurro. Nella mano destra reca uno scudo, e sullo scudo un’aquila d’argento in campo porpora; questa è l’anima che si sublima nello spirito. Nella mano sinistra reca lo scettro, emblema della sua sovranità. Ma di cosa è sovrana? Il suo piede sinistro poggia sulla mezzaluna rovesciata: essa regna al di sopra del mondo sublunare, oltre la dualità materiale, il diveniente, il transeunte, il corruttibile. Le sue ali bianche la portano nelle acque superiori, attorno al suo capo dodici stelle; è sovrana del mondo ideale – l’iperuranio platonico. Lì vi sono le idee pure, gli archetipi, le forme ideali; tutto questo non patisce mutamento, non si corrompe, ma rimane in eterno identico a sé. L’imperatrice apre la strada alla comprensione dell’ideale che informa la realtà; essa custodisce la geometria che regola i moti stellari, è Ištar.
Tutto questo ci racconta la tradizione; tutto questo è la Sophia dei Sapienti e dei Saggi ‒ e il primo filosofo, Talete di Mileto, è uno dei Sette Sapienti. Ma le figure del femminino si manifestano nel mondo della dualità e per ognuna di esse che cammina nella luce un’altra cammina nell’oscurità. Il femminino è ‘thauma’: meraviglioso e terribile. Le tre Grazie, le tre Parche; le tre Muse (ché in principio erano tre e poi tre volte tre), le tre Erinni; e poi le Nostre Signore del Dolore.
Ad Oxford un giovane studente sogna, e nei suoi sogni vede Levana, dea romana che officia il primo gesto d’amore nei confronti del neonato. Ma con essa dialogano tre sorelle, benché i loro reami siano quelli del silenzio. Esse sono i ‘dolori’, e questa parola deve “incarnarsi in tutte le astrazioni potenti delle singole pene del cuore umano”.[4] Come detto, si tratta di tre sorelle, e questa è la loro natura.
La primogenita è Mater Lachrimarum, è Nostra signora delle lacrime. Il suo regno è vasto, è diurno e notturno, e i suoi lamenti sono invocazioni per chi non è più. Un diadema cinge il suo capo, i suoi piedi viaggiano sui venti, e alla cintura porta le chiavi di tutte le porte del mondo. Si avvicina a passi lenti ma in certo modo regali, e siede a fianco di chi piange una luttuosa assenza. È lei che si posa vicino al padre che ha perso la figlia, al figlio che piange la madre, al fratello che ha perduto la sorella e alla fanciulla che ha sepolto l’amato. I suoi pianti e i suoi gemiti si versano come fiele nell’orecchio di questi infelici, e spesso rivolge la sua furia al cielo reclamando chi non ritorna.
La secondogenita è Mater Suspiriorum, è Nostra signora dei sospiri. Il suo regno è meno esteso ma pur sempre grande. Non porta diademi, cammina con passo incerto, fugge la luce e vive nell’ombra. I suoi occhi sono “pieni di disillusioni e di carcasse di deliri dimenticati”,[5] ma sempre rivolti al suolo, coperti dall’ombra di un turbante fatiscente. Lei accompagna la passiva disperazione dei vinti, degli sconfitti, dei senza speranza. Siede a fianco al prigioniero, al reietto, all’invisibile. Quando vivere non è altro che sopravvivere a se stessi, si possono udire i suoi sussurri, i suoi spasimi silenziosi, i suoi sospiri.
La più giovane è Mater Tenebrarum, è Nostra signora delle tenebre. Il suo regno è il meno esteso, e se così non fosse non vi sarebbe vita per gli esseri umani. È lei la più terribile, la più spaventosa, una condensazione alchemica di tenebre. La sua testa è coronata di torri e il suo sguardo, coperto da tre veli scuri, si innalza sopra ogni umana visione. Essa è possente, imponente, e sfida Dio. Madonna è signora delle follie, dei deliri e suggeritrice dei suicidi. Il suo regno è piccolo perché “ella può avvicinare solo coloro in cui una natura profonda è stata investita al centro da uno spasmo; coloro il cui cuore trema e il cervello ondeggia per la congiura di tempeste interiori ed esteriori”.[6] Di lei si può parlare solo sottovoce, sul fiato di un sussurro.
Queste tre Madri accompagnano la rovina, ma sono anche Maestre, varchi per il regno di Sophia. Mater Lachrimarum parla alle sorelle, e spiega loro perché tutte e tre siedono lì, ad Oxford, attorno al letto del nostro sognatore:
Tutto questo può avere un senso, tutto questo può non averne. Ma un tempo fu vero, potrebbe esserlo ancora, e forse lo sarà. Tutto questo è Sophia, e quando l’evoluzione dell’umanità corre sul filo elettrico dei nostri sogni di progresso cibernetico, essa percorre all’inverso la strada per l’oblio. Ma se pure noi dimentichiamo, deridiamo, e cerchiamo di annichilirlo, l’eterno femminino permane lì, per sempre salvo, per elevare e molcere l’umana esistenza.
[1] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, Roma 2010.
[2] Elémire Zolla, Le meraviglie della natura. Introduzione all’alchimia, Marsilio, Venezia 2017, p. 103.
[3] Ibidem.
[4] Thomas de Quincey, Levana e Le Nostre Signore del Dolore, in Suspiria de Profundis, Edizioni Clandestine, Massa 2018, p. 54.
[5] Ivi, p. 58.
[6] Ivi, p. 60.
[7] Ivi, p. 62.