Ogni monade, poiché potenzialmente può costituire qualsiasi genere di composto e non può comunicare in nessun modo con l’esterno, deve contenere già in se ogni cosa ab origine.
Negli anni di formazione culturale di Gottfried Wilhelm Leibniz – egli discute a Lipsia nel 1663 la sua tesi di baccalaureato dal titolo Disputatio metaphysica de principio individui – la filosofia insegnata nelle università tedesche era la cosiddetta ‘seconda scolastica’, ossia la filosofia degli scolastici medievali (particolarmente Tommaso d’Aquino) nella revisione e sistematizzazione operata dai filosofi spagnoli, tra i quali Francisco Suarez. Seppure questo era l’indirizzo ‘istituzionale’, ben diversa era la situazione nell’ambiente culturale esterno alle università.
La filosofia scolastica in quegli anni doveva confrontarsi con altre strutture di pensiero che ne mettevano seriamente in discussione le istanze fondamentali. Si tratta del cosiddetto pensiero del Rinascimento e della nuova scienza della natura. Alle posizioni di pensatori come Giordano Bruno e Giovanni Pico della Mirandola si affiancava il pensiero scientifico di Galileo Galilei che istituiva un nuovo metodo epistemologico basato sostanzialmente su due principi: partire sempre da una lunga indagine esperienziale sui casi individuali per poterne dedurre principi e leggi generali; tenere conto, nella formulazione di quest’ultimi, solo degli aspetti quantitativi della realtà, perché sono gli unici che possono essere rigorosamente calcolati ed espressi in termini matematici.
Leibniz fa proprie sia la filosofia classica che il nuovo metodo scientifico, e difatti è ricordato non solo per il suo sistema metafisico ma altresì per i suoi studi sul calcolo infinitesimale, senza il quale non si potrebbe comprendere a fondo il suo impianto ontologico. Procediamo, dopo questo breve inquadramento, ad osservare più da vicino il pensiero leibniziano, percorrendo la sua opera più significativa, la Monadologia.
Nei sistemi di Cartesio e di Spinoza si ricorderà come le due dimensioni ontologiche fondamentali fossero il pensiero e l’estensione, ossia la dimensione dei principi logico-razionali e la dimensione della materialità. Leibniz riparte da quest’ultima e si pone la domanda: che cosa costituisce gli enti? La risposta della filosofia scolastica e di Aristotele è nota: gli enti sono un composto unitario di principio formale e principio materiale. La risposta di Leibniz, invece, è differente. Vediamo le prime due proposizioni della prima parte della Monadologia:
Innanzitutto egli nota che ogni ente è un composto di elementi più semplici o, in altre parole, ogni ente può essere scomposto in parti più semplici. Tuttavia la scomposizione non può essere infinita (regressus in infinitum) e pertanto devono darsi dei costituenti ultimi semplici non ulteriormente scomponibili. Questi elementi vengono chiamati da Leibniz ‘monadi’ – unità. Queste monadi, anche se a prima vista potrebbero sembrare gli atomi di Democrito, sono affatto diverse: esse non hanno estensione, non hanno materialità. Sembra infatti che questo sia l’unico modo per garantire la loro indivisibilità:
Per Leibniz è contraddittorio il concetto stesso di un corpo non divisibile, pertanto l’unico modo per non cadere in tale contraddizione è ammettere che la divisibilità dei corpi è infinita, ma nel senso che le monadi stesse sono in numero infinito. In questo modo il risultato della divisione non è mai lo zero, il nulla assoluto, ma quella ‘forza rappresentativa’ (la monade appunto) che è il limite della divisione infinita dell’esteso – e il significato del termine ‘limite’ è esattamente quello che esso assume all’interno del calcolo infinitesimale scoperto proprio da Leibniz e da Isaac Newton. Poiché esse sono immateriali, conseguentemente sono anche non percepibili dai sensi – perché ovviamente non possiedono una materia che possa essere percepita o che possa agire sui sensi passivi preposti alla percezione. Un’altra conseguenza è il loro non essere né generate né corruttibili. Infatti la generazione non è altro che l’aggregazione di parti che prima erano disgregate, e la corruzione non è altro che la disgregazione di parti che prima erano congiunte:
Ultima conseguenza è la loro totale impermeabilità rispetto all’alterità o esteriorità. In altre parole esse non patiscono alterazioni di sorta per cause esterne ad esse, né possono agire su ciò che è all’esterno per modificarlo, né direttamente né indirettamente. Leibniz spiega questo con una proposizione divenuta celebre: «[1]Le monadi non hanno finestre dalle quali possa entrare o uscire qualcosa». [4]
Ma se le monadi sono immateriali, impercepibili, ingenerate ed incorruttibili, qual è la loro natura? Esse hanno delle qualità intrinseche e sono la percezione e la tendenza o appetito (adpetitus); a queste si aggiungono le affezioni.
Il ragionamento compiuto da Leibniz è il seguente: ogni cosa creata muta, e il mutamento impone che vi siano due dimensioni complementari. Vi dev’essere una parte che subisce il cambiamento, ed una parte che resta immutata, giacché se nulla cambiasse non vi sarebbe mutamento, e se tutto cambiasse non si potrebbe parlare di mutamento ma di generazione. Le monadi, però, sono unità semplici, e non hanno parti; inoltre non subiscono generazione né corruzione, e pur tuttavia ognuna di esse deve distinguersi da ogni altra o non sarebbe possibile non solo la differenziazione, ma nemmeno l’alterità e la molteplicità. Com’è possibile sostenere tutto questo senza cadere in contraddizione? In esse è presente una dimensione permanente che determina l’autoidentità di ogni monade con se stessa: si tratta della percezione. Questo principio di identità permanente non è l’appercezione (ossia la percezione del percepire), ma la percezione semplice, ed appartiene ad ogni monade, quindi ad ogni composto di monadi, quindi ad ogni ente. Queste percezioni, benché siano il fondamento dell’autoidentità, sono anche l’elemento transitorio, le affezioni, che determinano quindi la differenziazione e la molteplicità. Questo il senso: l’unità è data dal percepire – dal principio della percezione – e l’alterità è data dall’attualizzazione concreta della percezione transitoria. Ciò che muove la transitorietà, il principio agente del mutamento, è l’appetito, ossia la spinta al movimento e all’azione che proviene direttamente dal soggetto agente stesso. In questo modo le monadi sono in autoidentità con se stesse e sono allo stesso tempo molteplici e differenti pur non avendo nessuna delle qualità che appartengono all’estensione, alla materialità.
Si è detto che ogni ente è in sostanza un complesso di monadi; un esempio di monade può essere l’Io, o l’anima – che ha la peculiarità di avere in sé, oltre alla percezione, l’appercezione. Ogni monade, poiché potenzialmente può costituire qualsiasi genere di composto e non può comunicare in nessun modo con l’esterno, deve contenere già in se ogni cosa ab origine. Ogni monade, quindi è uno specchio della totalità: contiene in se potenzialmente la percezione della totalità, ma la realizza sempre in modo imperfetto. La percezione propria delle monadi, quindi, e sempre e soltanto percezione di sé, nel senso di percezione di qualcosa che è ‘all’interno’ della monade stessa.
Si ricorderà la distinzione operata da Cartesio circa le idee confuse e sfocate e quelle ‘chiare e distinte’; Leibniz fa prorpia questa impostazione e ritiene che nelle monadi vi siano percezioni confuse e percezioni chiare. Rispetto alle prime la monade si costituisce come passiva, rispetto alle seconde si costituisce come attiva. Facendo un esempio fin troppo semplicistico ma sostanzialmente corretto, si può dire che una monade che appartiene ad un composto che noi chiamiamo ‘albero’ ha una percezione chiara e distinta dell’essere albero, mentre ha una percezione confusa e sfocata dell’essere roccia, fiume, o qualsiasi altra cosa che non sia quell’albero che essa contribuisce a costituire. La doppia modalità di questa percezione è paragonabile alla messa a fuoco fotografica di un oggetto che allo stesso tempo implica la sfocatura di tutto ciò che è altro rispetto a quell’oggetto stesso.
Rimane ora un ultimo interrogativo da sciogliere in questa nostra brevissima ricognizione del pensiero leibniziano: se le monadi sono, per così dire ‘blindate’ ed impermeabili – ossia non agiscono sulle altre monadi e non patiscono azione da esse – com’è possibile che le loro aggregazioni si compongano e scompongano sempre e solo secondo regole universali, matematiche e prestabilite? Parzialmente si è già accennato alla risposta. Si è letto, infatti, nella sesta proposizione, che le monadi non possono avere cominciamento se non per creazione; ma se qualcosa viene creato vi dev’essere certamente qualcosa che crea. Seguiamo diligentemente il ragionamento di Leibniz.
Gli enti sono in perenne mutamento, e ogni cambiamento presuppone una causa che ne determini l’accadimento. In realtà si potrebbe dire che ogni cosa esistente ed ogni accadimento presuppongono una catena causale. Ora, Leibniz definisce questa causalità con l’espressione ‘ragion sufficiente’, ossia quella ragione (motivazione) che è sufficiente a spiegare ciò di cui si chiede spiegazione. Se si prendono gli infiniti mutamenti che avvengono nelle monadi – e quindi nell’essere – e si cerca di risalire la catena delle cause, si scopre che è sempre possibile trovare una ragione sufficiente per il singolo accadimento, ma non se ne trova una sufficiente a spiegare l’accadimento della totalità. Si deve quindi cercare una ragione necessaria e sufficiente a spiegare l’essere del Tutto, e non potrà che trattarsi di un ente supremo, il quale è causa – ragion sufficiente, appunto – di ogni cosa. Nelle parole di Leibniz:
Dio è pertanto l’ente sommo, o la monade suprema, il quale ha i medesimi caratteri che gli sono attribuiti nella sua concezione classica: l’unità, l’infinità, la perfezione e la potenza creativa. Proprio nell’atto della creazione Dio stabilisce una legge universale fondamentale che Leibniz chiama «armonia prestabilita», ed è quest’armonia che consente alle monadi impermeabili di costituirsi in composti e di operare aggregazioni e disgregazioni pur senza poter comunicare tra loro in alcun modo. In questo modo si costituisce quella particolarissima situazione per la quale Dio opera per garantire l’armonia nell’universo pur senza agire direttamente.
[1] Gottfried W. Leibniz, Monadologia, a cura di Sofia Vanni Rovighi, La Scuola Editrice, Brescia 1991, pp. 3-4.
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 5.
[4] Ivi, proposizione 7, pp. 6-7.
[5] Ivi, p. 26.